1967-2017
Il 5 giugno del 1967 scoppia la Guerra dei Sei Giorni. Un conflitto tanto breve quanto intenso, in cui Israele fronteggiò con successo gli eserciti di Egitto, Siria, Giordania e Iraq, conquistando ampie fette di territori, tra cui Gerusalemme, Cisgiordania e Gaza, aprendo di fatto la questione palestinese. Un conflitto i cui segni sono ancora ben visibili…
Il primo attacco, a sorpresa, parte il 5 giugno 1967, alle 7.45: aerei militari israeliani distruggono quasi del tutto l’aviazione egiziana. Stessa sorte, di lì a poche ore, per gli aerei siriani e giordani. Prive della necessaria copertura aerea le truppe egiziane subiscono anche l’offensiva terrestre israeliana. L’esercito con la Stella di David arriva nella penisola del Sinai passando per la Striscia di Gaza. Le brigate corazzate israeliane contrattaccano anche a Gerusalemme e a Jenin, varcando il confine della Cisgiordania per la prima volta dal 1948, dopo che la Giordania di re Hussein aveva preso a bombardare Gerusalemme Ovest e Tel Aviv, forte di un Trattato di Mutua Difesa siglato con l’Egitto il 30 maggio. I giorni successivi le forze armate israeliane confermano sul terreno la propria superiorità soprattutto sul fronte egiziano. Il 7 giugno le Forze israeliane entrano nella Città Vecchia di Gerusalemme, conquistando la Spianata delle moschee e il Muro del Pianto. Nel fronte siriano solo bombardamenti israeliani sulle alture del Golan. L’8 giugno entra in vigore il cessate-il-fuoco, richiesto dall’Onu, con Giordania e Egitto, e alle 3 del mattino del giorno dopo quello con la Siria. Nonostante ciò Israele continua a martellare con aviazione e artiglieria le alture del Golan conquistandole e costringendo l’esercito siriano a ritirare verso la capitale Damasco. Il 10 giugno cessano le ostilità. Il 22 novembre dello stesso anno il Consiglio di Sicurezza dell’Onu approva la Risoluzione 242 con cui si chiede la fine di ogni atto di belligeranza in Medio Oriente, il rispetto della sovranità, dell’integrità territoriale e dell’indipendenza politica di ogni Stato dell’area, una giusta soluzione del problema dei profughi, il ritiro delle Forze armate israeliane “from Occupied territories” (da territori occupati, testo inglese) e “des territoires occupés” (dai territori occupati, testo francese). Una sfumatura grammaticale di non poco conto che ha generato differenti interpretazioni diplomatiche per nulla chiarite in questi 50 anni. Inutile anche l’approvazione, sempre da parte del Consiglio di Sicurezza, della Risoluzione 338 (dopo la Guerra del Kippur, 1973), che chiedeva, tra l’altro, la piena attuazione della 242. Di fatto la “guerra dei Sei giorni” segna il passaggio dell’intera Palestina sotto Israele aprendo la questione palestinese.
Conflitto marginale. “Il conflitto ha cambiato completamente gli scenari dell’area.
Israele ha mostrato la sua forza militare e la sua efficienza al mondo arabo. Quest’ultimo ha incassato la sconfitta e compreso i suoi limiti”
spiega Janiki Cingoli, presidente del Cipmo, il Centro italiano per la pace in Medio Oriente (Cipmo.org) che alla Guerra dei Sei Giorni dedicherà un evento il 7 giugno a Milano intitolato “A 50 anni dalla Guerra dei Sei Giorni: il Medio Oriente ai tempi di Trump”. “In questo lungo tempo i tentativi di risolvere il conflitto-israelo-palestinese si sono bloccati. La Comunità internazionale appare sempre più orientata ad un management del conflitto piuttosto che ad una sua soluzione – dice il presidente del Cipmo – anche perché, con altre gravi crisi scoppiate nel quadrante mediorientale, Siria, Iraq, Yemen e Libia, quella israelo-palestinese appare sempre più marginale”. Altro elemento che grava sulla questione, secondo Cingoli, è il conflitto tra area sunnita, a guida saudita, e quella sciita, a guida iraniana:
“Trump con la sua recente missione in Medio Oriente ha puntato a rilanciare le alleanze Usa nella Regione e a costruire un asse tra Stati arabi sunniti e Israele per contenere, non distruggere, l’espansionismo iraniano (Iraq, Siria e Hezbollah) e la presenza russa sempre più incisiva e determinante”.
“Il salto di qualità”, come lo definisce il presidente del Cipmo, che Trump intende fare è “portare alla luce del sole questa vera e propria alleanza militare contro l’Iran e l’Isis. Ma si tratta di una contraddizione evidente poiché
tra Iran e Isis non c’è molto in comune. Lo Stato Islamico infatti, è connesso a fondazioni e servizi segreti legati al wahabismo sunnita. Difficile attribuirgli gli attentati in Europa o ai copti in Egitto”.
Per realizzare questo obiettivo, sostiene Cingoli, “Trump dichiara di voler trovare una soluzione definitiva al conflitto israelo-palestinese, un passaggio, peraltro, richiesto da Riad e i suoi alleati arabi. Se si tratti di propaganda o di reale tentativo è difficile dirlo. Forse si arriverà nell’estate ad un vertice tra il presidente palestinese Mahmoud Abbas e il premier israeliano Netanyahu con qualche capo arabo di contorno”. In gioco ci sono anche accordi e concessioni di tipo commerciale con i Paesi arabi (per esempio, linee telefoniche e voli diretti) intesi come “passi intermedi rispetto a quanto previsto dal Piano arabo del 2002”, ma “Israele deve riprendere il processo di pace e concentrare gli insediamenti nei grandi blocchi”.
A 50 anni dalla Guerra dei Sei giorni e dall’inizio dell’occupazione israeliana la soluzione “Due popoli, due Stati” resta ancora percorribile? “La diplomazia di Trump – secondo Cingoli – sta puntando a spostamenti territoriali a favore dei palestinesi. Si tratta di passi intermedi che non è detto si concludano con la creazione di uno Stato palestinese. Molto dipenderà da Netanyahu ma bisognerà anche vedere cosa accadrà sul versante palestinese sempre spaccato al suo interno”.