Terrorismo

Terrorismo. Paolo Branca: “I foreign fighters italiani sono pochi e non colpiscono l’Italia”

I foreign fighters made in Italy come il giovane Youssef Zaghba del London Bridge, non sono molti ma non colpiscono l’Italia. I motivi sono due, spiega in questa intervista Paolo Branca. Il primo è che il nostro Paese è una passarella che si attraversa anche abbastanza facilmente e far saltare questo corridoio non conviene a nessuno. Il secondo motivo è legato alla criminalità organizzata che “aiuta questo traffico umano e probabilmente nell’aiutarlo pone delle condizioni, tra cui quella di non colpire l’Italia, le chiese, il Papa”

Ha un volto italiano il terzo terrorista identificato dell’attacco omicida al London Bridge. Si chiamava Youssef Zaghba ed era nato a Fes in Marocco 22 anni fa, da padre marocchino e madre italiana. La mamma si era convertita all’Islam 26 anni fa e oggi vive in Italia. Il ragazzo era conosciuto dalle forze dell’ordine e il suo nome era stato inviato anche a Scotland Yard. Fu infatti fermato a marzo 2016 all’aeroporto di Bologna, da cui stava per prendere un volo diretto a Istanbul. Il ventenne italo-marocchino aveva con sé solo un piccolo zaino, il passaporto e un biglietto di sola andata: circostanze sospette, che insieme alla rotta aerea per la Turchia, ne fecero disporre il fermo per accertamenti. Di ragazzi come Youssef Zaghba in Italia “ce ne sono”, dice Paolo Branca, professore di islamistica all’Università Cattolica di Milano. “Non sono molti e la fortuna, tra virgolette, è che probabilmente non colpiranno qua. Ma è una fortuna relativa”.

Chi sono?
Questi ragazzi che partono o tentano di raggiungere la Siria spesso sono molto giovani, non è detto che siano musulmani praticanti né frequentatori di moschee. Sono però ragazzi che hanno forti problemi identitari tipici della loro età, adolescenti e poco più. Sono figli dalla identità non definita: non si sentono né carne né pesce, né italiani né marocchini, per cui vivono a disagio in Italia perché sono considerati degli stranieri e a disagio nei Paesi di origine dei loro genitori perché vengono tacciati per occidentali.

Si può quantificare il fenomeno dei foreign fighters made in Italy?
Non sono molti ma la cosa interessante è che non colpiscono l’Italia. La domanda vera allora è: perché? Credo che le risposte siano due: da una parte l’Italia è una passarella che si attraversa anche abbastanza facilmente per cui far saltare questo corridoio non conviene a nessuno visto che gli obiettivi sono altri e sono i Paesi più coinvolti nei quadri della crisi mediorientale. Il secondo motivo è brutto dirlo ma probabilmente è legato alla stessa criminalità organizzata che aiuta questo traffico umano e probabilmente nell’aiutarlo pone delle condizioni, tra cui quella di non colpire l’Italia, le chiese, il Papa.

Non è una ipotesi strampalata dire che se finora l’Italia non è stata colpita, non è solo per l’efficienza dei nostri servizi ma è perché siamo luogo di transito e probabilmente qualcuno ha posto delle condizioni.

Dove viaggia da noi la radicalizzazione, visto che almeno per il momento in Italia non siamo ancora arrivati alla situazione delle banlieue parigine e delle città inglesi come Birmingham?
Per chi è fuori, sul web; per chi è dentro, nelle carceri. Le “vittime” preferite sono quelli che vivono il fallimento di un progetto di integrazione andato male. Di solito è un percorso repentino e radicale.

Come è possibile un cambiamento così repentino? Evidentemente la proposta radicale è particolarmente convincente se spinge i ragazzi a fare scelte estreme. Qual è il suo punto di forza?
Noi chiediamo ai ragazzi di essere moderati. In realtà i ragazzi cercano l’assoluto, sono per le scelte totali, nell’innamoramento, anche nella passione per una squadra di calcio. Cercano l’eroismo. Per cui se un ragazzo si sente uno sfigato, per di più vittima di un sistema che ritiene ingiusto, elabora un mix di rabbia e depressione che diventa terreno fertile per proposte estreme come quelle avanzate dal sedicente Stato islamico. E’ la possibilità di dedicarsi a una causa, di dare un senso a una vita che stenta a trovare una via di uscita. Per alcuni può addirittura essere una sorta di vendetta contro una società da cui si aspettavano un riscatto e che invece è diventata una gabbia, una trappola finale in cui sono miseramente caduti.

Che ruolo possono giocare secondo lei le comunità islamiche?
Si muovono. Soprattutto negli ultimi anni stanno cercando di isolare queste persone, di mandarle via e a volte le segnalano anche alle forze dell’ordine. Però la situazione è più complessa di quello che si pensa. Intanto

le persone che si radicalizzano, sono persone che non si amalgano nella comunità.

Stanno molto da sole o in piccoli gruppi paralleli. E poi non so quanto ci si senta in dovere di andare a denunciare qualcuno che sì, è un po’ strano, ma forse ha anche qualche buon motivo per non essere contento. Teniamo poi conto che molti di questi centri islamici per decenni hanno diffuso materiali inneggianti alla causa islamica, magari non di tipo terrorista.

E quindi che fare?
Finché non si stabilizza la situazione del Nord Africa e del Medio Oriente dal punto di vista geopolitico, c’è poco margine a una soluzione. E l’Europa, anche su questo fronte, è assente. C’è poi una carenza di visioni a medio e lungo termine. L’importante è vincere le elezioni e le elezioni pare che si vincano con gli estremi di chi urla all’invasione che non c’è o alla accoglienza di tutti, che non è possibile. Le posizioni ragionate non passano nei media. Mancano uomini capaci di non essere miopi. Insomma, nessuno ci sta mettendo veramente mano. Ma è un impasse suicida e lo stiamo vedendo.