Migrazioni
Una volta Paese di partenze di migranti, ora luogo di passaggio verso la Libia (ma alcuni riescono ancora ad imbarcarsi dai porti del nord), la Tunisia sta cercando, con fatica, una sua stabilità democratica e un suo sviluppo, dopo i moti della primavera araba e gli attentati terroristici di due anni fa. Ce ne parla mons. Ilario Antoniazzi, arcivescovo di Tunisi dal 2013
La Tunisia, da Paese di partenze d’imbarcazioni di migranti verso Lampedusa, è oggi luogo di passaggio verso la Libia, tranne rari casi. Dalla Tunisia sono partiti – invece e purtroppo – almeno 6-7.000 tunisini per andare a combattere nelle file dell’Isis. Elementi radicalizzati che prima o poi potrebbero rientrare a casa. È ciò che preoccupa di più, oggi, la società tunisina. Da due anni non è più oggetto di attentati terroristici ma non può certo sentirsi al riparo e serena. “Il futuro fa più paura del presente”, dice l’arcivescovo di Tunisi, monsignor Ilario Antoniazzi, in questi giorni a Roma. La Chiesa cattolica tunisina è uno dei pochi avamposti in aiuto dei migranti, in maggioranza africani sub-sahariani. Cerca di scongiurare la pericolosa traversata del Mediterraneo ma spesso, prima di avventurarsi nell’ultima parte del viaggio, i migranti chiedono all’arcivescovo una benedizione: “A volte riceviamo una telefonata dall’Europa – racconta -. Ma tante volte il telefono non squilla più”. Ma non è il Mediterraneo, secondo monsignor Antoniazzi, il più grande cimitero del mondo. “C’è n’è uno più grande ancora: il Sahara”.
Dalla Tunisia i migranti non partono più?
La Tunisia è diventata un Paese di passaggio. Non ci sono più le partenze verso Lampedusa come una volta. Oggi ci sono controlli più severi, ogni tanto qualcuno parte ma non sappiamo se riesce ad arrivare. I migranti arrivano da noi, i trafficanti li accompagnano verso la frontiera con la Libia, lì trovano un’automobile che li porta fino al mare e aspettano la prima occasione – dopo uno o due mesi – per partire per l’Europa. Poi ci sono tanti piccoli porti al nord della Tunisia, in quelle cittadine i migranti lavorano per fare i soldi sufficienti per partire. Ogni tanto la polizia ci chiama per dirci che ci sono morti annegati da seppellire.
In che condizioni vivono i migranti sub-sahariani?
Da noi i migranti sono sfruttati come ovunque. Considerano la Chiesa un punto di riferimento. Partono dal loro Paese sapendo che è l’unico posto che li rispetta, soprattutto le ragazze. Cerchiamo di aiutarli, non solo per l’emergenza ma per rendere degna la loro vita. A me non piace molto fare la carità, preferisco offrire un piccolo progetto perché possano viverne, dicendo che i soldi vanno restituiti per aiutare altri. È più dignitoso. Poi c’è chi restituisce tutto, chi metà, chi niente, non importa. Almeno capiscano che non facciamo carità ma diamo un aiuto a vivere con dignità.
Pur sapendo dei rischi che corrono in mare vogliono tutti venire in Europa?
Partono con l’idea che l’Europa sia il paradiso ma non possono più rientrare nel loro Paese. Anche se vedono i compagni morire annegati vogliono partire lo stesso. Non hanno il coraggio di tornare a casa dicendo “Ho avuto paura”. È un disonore. Per pagarsi il viaggio saltano fuori delle grosse somme che li costringono a vendere i campi e a volte, perfino, la casa. Se riflettessero un po’ di più capirebbero che nel loro Paese con la stessa somma farebbero un progetto.
Dal 2011 e per alcuni anni al confine con la Libia il campo profughi di Choucha accoglieva migliaia di migranti dimenticati da tutti. La Chiesa cattolica era una delle poche realtà che portavano aiuti. Cosa è accaduto nel frattempo?
Per il governo tunisino il campo è chiuso, non esiste. Ma sono ancora lì, abbandonate nel nulla, circa 200 persone, soprattutto libici fedeli all’ex regime di Gheddafi e qualche africano sub-sahariano. Piuttosto che attraversare il deserto e tornare indietro rimangono lì, nella speranza che i tempi possano cambiare. Tra i pochissimi che possono andare ci sono i nostri sacerdoti della Caritas. Portano aiuti, cibo, vestiti. La polizia fa finta di non vederci.
E la primavera araba tunisina?
È finita, non c’è mai stata una primavera araba, anche se la Tunisia se l’è cavata con meno danni di altri Paesi. Da noi c’è uno spirito di libertà di pensiero. Non voglio chiamarla ancora democrazia perché la democrazia è la fine di un lungo cammino dopo aver sudato per arrivarci. Però c’è un cambiamento.
È finita con gli attentati terroristici di due anni fa, che hanno affossato il turismo e l’economia?
Dicono che in Tunisia c’è il terrorismo ma ricordiamo che l’ultimo attentato è accaduto due anni fa, mentre in Europa è successo da poco. Dicono che il turismo si stia riprendendo: ogni tanto si vede arrivare qualche pullman, alcune crociere. Come Chiesa non abbiamo alcun problema. Non siamo mai stati minacciati, io posso andare dove voglio, non ho scorta. Però
la Tunisia è il più piccolo Paese del Nord Africa che ha dato più combattenti “sull’altare del martirio”, come dicono quelli del Daesh/Isis. Prima o poi torneranno a casa.
È gente abituata alla guerriglia e alla guerra. Parecchie cellule sono già rientrate. La polizia dice che li sta controllando ma fino a quando?
È ciò che fa più paura oggi?
Il futuro fa più paura del presente. Ma è inutile pensarci e stare male. Quando mi chiedono com’è la situazione in Tunisia guardo l’orologio e dico: sono le 2. 45. Fino ad ora va bene, ma non so cosa succederà alle 3.
Si vive in pace ma non con la serenità del futuro.
Ora non ci lamentiamo ma non possiamo dire di aver risolto tutti i problemi. In più, di fronte alla domanda se i terroristi tunisini devono rientrare o meno, la popolazione è divisa. Molti dicono: “Sono nostri figli, devono rientrare, siano messi in prigione”. Ma bisognerebbe costruire altrettante prigioni, perché si parla di 6-7.000 persone. Altri dicono “perché riportarli a casa, per avere problemi? E chi li tiene?”. Questo fa paura. Non so come si possa risolvere questo problema, perché hanno tutti passaporto tunisino e diritto a rientrare nel Paese.
Qual è oggi la priorità per la Tunisia?
Come Chiesa cerchiamo di aiutare tutti i migranti di passaggio, provando a convincerli che tornare a casa con la testa sulle spalle è meglio che annegare nel Mediterraneo. Ma non è facile.
Tanti chiedono una benedizione per attraversare il mare.
Ne parliamo a lungo, alla fine questa benedizione gliela diamo. A volte riceviamo una telefonata dall’Europa che ci dice: “Sono riuscito ad arrivare”. Ma
tante volte il telefono non squilla più. È molto triste.
Una cosa di cui non si parla è che
non solo il Mediterraneo è un grande cimitero. Ce n’è uno più grande ancora e si chiama Sahara.
Se parte un barcone prima o poi si viene a sapere. Ma tra tutti quelli che sono arrivati in Tunisia non sappiamo quanti sono morti di sete nel deserto, violentati e abbandonati. Sentire i loro racconti è terribile.