Accoglienza
La Federazione Salesiani per il sociale (Scs/Cnos) gestisce su tutto il territorio nazionale 31 case famiglia, suddivise in strutture di prima e seconda accoglienza di minori italiani e stranieri. “In quelle di prima accoglienza – spiega don Giovanni D’Andrea, presidente della Federazione – diamo ospitalità a rifugiati sbarcati nei porti. Per legge dovrebbero rimanere 90 giorni ma restano mesi. Nella seconda accoglienza i ragazzi compiono un percorso di accompagnamento verso l’inclusione nella società. La maggior parte non vuole rimanere in Italia ma dirigersi nel Nord Europa”
Storie così belle che non sembrano vere. Storie di povertà, guerra, separazione dalle proprie famiglie. E poi tortura, fame, violenza. Ma anche accoglienza, voglia di ricominciare e rinascita. Storie incredibili, più frequenti di quanto si immagini. A dispetto di chi è convinto che l’immigrazione sia solo un problema. Sono le storie raccolte dal Centro nazionale delle Opere Salesiane (Scs/Cnos), impegnate in Italia – come tante altre realtà spesso taciute – a favore dei giovani migranti e rifugiati.
Fuggito dall’odio, ora sogna di rimanere in Italia. La vicenda di Aron, diciassettenne, inizia a Barra, una città del Gambia. Qui per sette anni frequenta la scuola coranica. “Ma ho abbandonato”, racconta. Quindi sceglie di aiutare il fratello che gestisce un hotel per turisti. Fra i loro clienti ci sono persone omosessuali e, per questo, l’albergo viene sequestrato dalle autorità che lo considerano un reato. Per sfuggire all’incriminazione, Aron e suo fratello scappano in Mali e poi in Burkina Faso. I poliziotti però li arrestano, visto che non hanno i soldi per pagare la dogana. Evadono e giungono in Niger: attraversano con un’auto il deserto e dopo tre giorni arrivano in Libia. A Tripoli, il fratello trova un lavoro e il denaro per imbarcare da Sabratha. Il viaggio in mare dura due giorni fino al porto di Palermo. Messo piede in Italia, Aron sa che il fratello, nel frattempo, è stato catturato, picchiato e ucciso. “A braccia aperte” è l’associazione che a Camporeale, in provincia di Palermo, lo accoglie un anno fa. Rimane solo 90 giorni, come prevede la legge per i minori non accompagnati. Ora è in una struttura di seconda accoglienza sempre del capoluogo siciliano e ha fatto la richiesta di protezione internazionale. Il suo sogno è lavorare in Italia, magari in un hotel.
Chi li accoglie a braccia aperte. “Lavorare con persone di diverse nazionalità è emozionante”, spiega Iva Cammalleri, coordinatrice del progetto nella struttura di Camporeale, che ospita minorenni fra i 14 e i 18 anni, fra cui Aron. “Ti fa sentire vivo – continua -. Ti dà la possibilità di confrontarti con realtà prima ignote, ti confronti con costumi e tradizioni diversi. Ti arricchisce e ti dà la voglia di metterti in gioco continuamente”. A chi ascolta, la coordinatrice rivolge un invito:
“Vieni a vedere con i tuoi occhi. C’è la persona dietro questo fenomeno, c’è la persona che deve essere accolta, sostenuta, che ha il diritto di vivere una vita dignitosa così come l’abbiamo noi, indipendentemente dal luogo in cui si è nati”.
Nell’ottobre 2015, “A braccia aperte” ha avviato la struttura di primissima accoglienza ad alta specializzazione per i minori stranieri, insieme al progetto “I care”, sostenuto da Salesiani per il sociale. Separarsi dai ragazzi che, dopo i fatidici 90 giorni, devono uscire dalla casa è dura anche per chi ci lavora. “Con i giorni impariamo a capirci e si crea un legame affettivo molto forte. Il momento in cui i ragazzi devono lasciarci per noi è un momento bello perché i ragazzi potranno avviare un percorso più stabile ma è anche brutto perché una persona a cui vogliamo bene dovrà andare via”, testimonia Matteo Rallo, altro coordinatore di “A braccia aperte”.
“Non vengono qui per rubarci niente – aggiunge -. Vengono per vivere meglio, stare meglio e contribuire a far crescere il posto dove vanno. Loro hanno tanta voglia di mettersi a disposizione della terra che li accoglie. Li sosteniamo per capire cosa devono affrontare e qual è il Paese che li deve accogliere”.
La comunità ospita minori dall’Africa e dall’Asia che fuggono per diversi motivi dai Paesi d’origine. “Scappano dalla guerra, dalla fame – prosegue Rallo -. Non possono vivere i propri sentimenti e sono costretti a condizioni per noi inimmaginabili”.
Dall’Egitto al profondo Nord. Ha 17 anni ed è egiziano, Bibo è sfuggito all’Isis tre anni fa. Dopo sei giorni e sei notti di traversata in mare è riuscito ad arrivare in Sicilia. Dal Sud, viene trasferito ad Arese, in provincia di Milano, nel Centro salesiano san Domenico Savio, dove frequenta un percorso di formazione professionale. La sua passione è la cucina, scoperta proprio nella struttura grazie ai formatori che lo hanno aiutato a trovare la sua strada. “Ho ancora un po’ di difficoltà con la lingua ma i professori e i compagni mi hanno sempre aiutato”, dice Bibo con una proprietà di linguaggio da far invidia ai coetanei italiani. Quest’anno ha superato l’esame di qualifica, preparando “un fritto di maiale con verdure tornite”, dopo aver avuto accesso a un iter studiato per lui dai formatori salesiani del Cnos-Fap, denominato “percorso felice”, che prevedeva meno discipline teoriche e più pratica da trascorrere in laboratorio. Oggi è pronto a lavorare nelle cucine dei ristoranti italiani, dove tra l’altro si è già cimentato l’anno scorso per uno stage.