Estate

La lentezza non è una moda da Festival

Vivere lentamente significa in fondo riscoprirsi creature che non si fanno schiacciare dai vincoli culturali, ma “resistono” testimoniando la priorità del prendersi cura dell’altro, dell’affidarsi senza eccessivi calcoli al Signore della vita, del prendersi spazi per tirarsi in disparte (per il proprio amore il tempo si trova sempre!) come faceva Gesù. È il suo passo che diventa misura e strumento della nostra felicità

Nel correre frettoloso dell’estate la sosta di qualche settimana di ferie non è un regalo, ma un diritto, un obbligo. Può trasformarsi in dono duraturo, se ci rinnova attraverso un incontro anche breve che si rivela però decisivo, o una settimana piena di vera condivisione. O anche solo grazie alla scoperta di un rifugio, di un orizzonte o di un pensiero sapiente che ritorneranno a parlarci nei giorni del lavoro.

Quest’anno l’augurio potrebbe essere quello di imparare l'”inno alla lentezza”, quella forma di sobrietà di tipo relazionale che il nostro arcivescovo esalta nelle pagine de “La vita è bella”, la lettera che ci ha rinfrescato come aria di casa sotto l’ombrellone e ora sulla panchina al limitare del bosco. Il “valore lentezza” è emergente, a parole più che nei fatti, tanto che da qualche anno si celebra addirittura un’apposita giornata della lentezza, ma quello di don Lauro non è cero uno scontato invito alla moda, congeniale a quella tendenza del marketing che ha persino inventato il primo Festival della lentezza, poche settimane fa a Colorno, provincia di Parma.

Dobbiamo distinguere, forse. Non si tratta certo di una lentezza da sperimentare a fasce orarie, tanto meno di un passivo e menefreghista “lasciarsi portare” dentro la corrente, peraltro vorticosa, del “così fan tutti”.

La lentezza non ha lo stesso passo per tutti. In una famiglia, ad esempio, la coppia può aver bisogno d’estate di ritagliarsi qualche giorno o almeno qualche serata per guardare in silenzio nella stessa direzione (“ora riusciamo a parlare di quanto non va…”), i giovani possono riprovare una partita a carte col nonno e prendersi qualche mezzora di buone chiacchiere, fermi a tavola davanti alla frutta: “Che fretta c’è, non sparecchiamo subito, dai…”. E anche gli adolescenti, il cui ritmo è dettato dal viavai di messaggi sul cellulare, si trovano a scoprire in estate un ritmo naturale, ma oggi alternativo: la lentezza dei pescatori che al porto non si stancano di gettare la rete all’alba o la pazienza dei malgari che attendono le loro bestie puntuali alla mungitura.

“Ridiamo valore al tempo, non affanniamoci a saturare le nostre agende. Esse documentano un’esaltazione schizofrenica della velocità, dietro la quale si maschera però, il più delle volte, la nostra incapacità di trovare il coraggio di perdere tempo nella relazione con gli altri”.

In sintesi, c’è tutto, la dipendenza dal fattore-tempo (mentre restiamo noi i signori delle nostre vite, non lui!), i laccioli di impegni che troppo spesso moltiplichiamo, l’idolo della velocità che adoriamo senza accorgerci di cosa ad esso immoliamo. Perfino un certo efficientismo pastorale genera uno stress da risultato (altro che la pazienza di “avviare processi invece che occupare spazi”, raccomandata da Papa Francesco) che finisce per avvelenare i rapporti e allontanare chi non tiene il ritmo.

Per guadagnare un tempo più umano, dovremo davvero imparare a “perdere tempo”. Le ferie, non stressanti, sono possibilità di capire che l’agenda può avere buchi, che non ci dobbiamo sempre chiedere, come fanno i bambini, “cosa si fa di bello,oggi?”. Una giornata apparentemente vuota può essere colmata da un dialogo imprevisto, da un’ideona dell’ultima ora, da quella visita che non ho mai tempo di fare.

Staccare qualche connessione apre spazi in cui far entrare gli altri, recuperare rapporti. Una telefonata sempre rimandata. Un libro che mi risveglia o mi ricarica. Un prete o un amico di fiducia con cui parlare senza orologio.

Buoni propositi di una notte in tenda? Quel viaggiatore profeta della sostenibilità che fu Alexander Langer aveva intuito in anticipo il rischio della cultura ipervelocizzata lanciando ancora ad Assisi nel 1994 quell’espressione lentius (più lentamente) che ritorna col suo sapore evangelico. E che ritroviamo anche nelle pagine di Sepulveda, lettura estiva da consigliare, sulla “storia della lumaca che scoprì l’importanza della lentezza”.

Vivere lentamente significa in fondo riscoprirsi creature – non a caso ci porta ai “gigli del campo e uccelli del cielo” la citazione di mons. Tisi (e la copertina della sua lettera) – che non si fanno schiacciare dai vincoli culturali, ma “resistono” testimoniando la priorità del prendersi cura dell’altro, dell’affidarsi senza eccessivi calcoli al Signore della vita, del prendersi spazi per tirarsi in disparte (per il proprio amore il tempo si trova sempre!) come faceva Gesù. È il suo passo che diventa misura e strumento della nostra felicità.

(*) direttore “Vita Trentina” (Trento)