Economia

Svimez: il Sud continua a crescere, ma solo nel 2028 tornerà ai livelli pre-crisi

La ripresa c’è, anche nel Mezzogiorno. Ma non solo è troppo lenta per recuperare in tempi ragionevoli un divario socialmente insostenibile. Il problema è che vale per essa quel meccanismo perverso ormai ampiamente evidenziato per la ripresa economica generale: un aumento del Pil non incide automaticamente sull’emergenza sociale e sulle disuguaglianze

L’economia del Sud continua a crescere. Per due anni consecutivi, dopo una lunga fase recessiva, il suo Pil è cresciuto persino più di quello delle Regioni del Centro-Nord. Crescerà anche quest’anno e nel prossimo, anche se meno che nel resto del Paese. Ma troppo grande è il fossato scavato dalla grande crisi nel nostro Mezzogiorno, che già partiva da posizioni di difficoltà.

A questi ritmi recupererà i livelli pre-crisi nel 2028, dieci anni dopo le Regioni centro-settentrionali.

L’analisi dello Svimez, che oggi ha presentato alcune sostanziose anticipazioni del prossimo rapporto annuale sul 2016, è attenta a cogliere tutti i segnali positivi che pur emergono. Ma non può e non vuole nascondere la domanda che il suo presidente, Adriano Giannola, esprime così: “Queste dinamiche economiche sono compatibili con le dinamiche sociali?”. La risposta è inevitabilmente negativa, purtroppo.

Ma vediamo alcuni dati. Nel 2016 il Pil delle Regioni meridionali è aumentato dell’1% contro lo 0,8% del Centro-Nord. Secondo le previsioni dello Svimez quest’anno crescerà anche di più (+1,1%), ma nel frattempo le Regioni centro-settentrionali saranno balzate al +1,4%. Nel 2018 queste ultime avranno un incremento dell’1,2%, mentre il Sud si fermerà al +0,9%.

Intendiamoci, è estremamente importante che l’economia del Sud sia comunque in crescita.

“Non è più la palla al piede del Paese”, sintetizza il vicedirettore dello Svimez, Giuseppe Provenzano. In particolare è importante che nella ripresa del Sud abbia giocato un ruolo decisivo il settore manifatturiero, che nel biennio 2015-2016 è cresciuto cumulativamente di oltre il 7%. Il che dimostra che la crisi non ha minato la capacità produttiva delle Regioni meridionali. Significativa anche la ripresa dei consumi e degli investimenti privati: questi ultimi sono aumentati del 2,9% nel 2016, riuscendo a più che compensare il calo degli investimenti pubblici, che sono scesi al minimo delle serie storiche delle rilevazioni.

Una dinamica per nulla scontata, nel Mezzogiorno.

Bisogna poi distinguere tra Regione e Regione, perché le situazioni sono molto differenziate. Addirittura clamoroso l’exploit della Campania, che nel 2016 è la Regione italiana con la crescita maggiore del Pil: +2,4%. La Basilicata rallenta ma continua a tirare e con il suo +2,1 si colloca tra le prime Regioni a livello nazionale. Anche il Molise conserva un buon ritmo (+1,6%), mentre frena la Puglia rispetto al 2015 (+0,7%). La Calabria cresce dello 0,9%, la Sicilia appena dello 0,3%. La Sardegna rialza la testa con un +0,6%, dopo due anni con il segno “meno”, mentre l’Abruzzo registra un -0,2%. In entrambi i casi, in positivo e in negativo, è l’andamento dell’industria a condizionare il risultato. Questo quadro così polarizzato, se da un lato fa risaltare la presenza di potenzialità enormi, dall’altro mette in evidenza l’incapacità di “fare sistema” al di là dei confini regionali.

Dunque la ripresa c’è, anche nel Mezzogiorno. Ma non solo è troppo lenta per recuperare in tempi ragionevoli un divario socialmente insostenibile. Il problema è che vale per essa quel meccanismo perverso ormai ampiamente evidenziato per la ripresa economica generale: un aumento del Pil non incide automaticamente sull’emergenza sociale e sulle disuguaglianze.

Secondo i dati del 2016, sottolinea lo Svimez, circa 10 meridionali su 100 risultano in condizione di povertà assoluta e nelle Regioni del Sud il rischio di povertà è triplo rispetto al resto del Paese.

Anche il dato sull’occupazione, che pure registra 101mila occupati in più nel 2016 rispetto all’anno precedente (ma sempre 380 mila in meno sul 2008, quando pure il lavoro al Sud era già un problema grave), va letto con cautela. Infatti, “l’incremento degli occupati anziani e del part-time contribuisce a determinare una preoccupante ridefinizione della struttura e qualità dell’occupazione”. Aumentano i lavoratori a bassa retribuzione, al punto che non sempre il lavoro mette al riparo dalla povertà. Spicca poi un “dualismo generazionale”, che sul piano dell’occupazione penalizza soprattutto i giovani.

Peraltro il Sud continua a subire un calo demografico superiore a quello del Centro-Nord: nel 2016 le Regioni meridionali hanno perso 62mila unità (e senza l’apporto degli stranieri il dato sarebbe stato ancora più negativo) contro le 14mila di quelle centro-settentrionali.

Sul piano delle terapie, ce n’è una su cui lo Svimez ha puntato particolarmente i riflettori. È contenuta nel primo dei due decreti sul Mezzogiorno varati dal governo e stabilisce che nei programmi di spesa sia destinato al Sud “un volume complessivo di stanziamenti ordinari in conto capitale proporzionale alla popolazione di riferimento”. Allo Svimez l’hanno ribattezzata clausola del 34%, perché tale è la quota di popolazione delle Regioni meridionali. Tanto per avere un’idea, se fosse stata applicata negli anni della crisi, avrebbe dimezzato l’impatto della recessione sul Sud.