Cultura
Primo Levi si è più volte chiesto: “Perché la memoria del male non riesce a cambiare l’umanità? A che serve la memoria?”. Cioè, ricordare si deve… ma si può? Ne siamo davvero capaci? Siamo davvero in grado di imparare dalla storia? Le domande di Levi sono anche nostre, dinanzi al persistere e al riacutizzarsi dei tentativi di negare all’altro la dignità di persona: tentativi di trasformare l’altro in un oggetto, che può essere maneggiato o distrutto a piacimento. Prendere sul serio le parole sofferte di Primo Levi ci aiuterebbe oggi a guardare diversamente il nostro modo di starci accanto e di vivere le nostre relazioni, lunghe o corte che siano. Forse ci potrebbe aiutare a leggere in modo diverso anche il fenomeno delle migrazioni…
“Voi che vivete sicuri / nelle vostre tiepide case…”. Questi i primi versi della celebre poesia di Primo Levi, con cui ha inizio “Se questo è un uomo”: il tormentato e drammatico racconto dell’esperienza personale vissuta nel campo di concentramento di Auschwitz. Ne rileggo – dopo molti anni – alcune pagine, in concomitanza con la data del compleanno dell’autore (il 31 luglio) e a 30 anni dalla tragica morte, avvenuta a Torino nel 1987. “A molti individui o popoli – scriveva Levi nella Prefazione alla prima edizione del ’47 – può accadere di ritenere più o meno consapevolmente che ‘ogni straniero è nemico’. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come un’infezione latente”. E quando questa persuasione inespressa diventa pensiero lucido e convinzione determinata – concludeva il chimico ebreo – “allora, al termine della catena, sta il lager”.
Nella Prefazione del ‘72, Levi ammoniva il lettore a non sentirsi troppo al sicuro per il fatto che “oggi queste cose ormai non accadono più”: “No, non esistono oggi in nessun luogo camere a gas né forni crematori, ma ci sono campi di concentramento in Grecia, in Unione Sovietica, in Vietnam, in Brasile. Esistono, quasi in ogni Paese, carceri, istituti minorili, ospedali psichiatrici, in cui, come ad Auschwitz, l’uomo perde il suo nome e il suo volto, la dignità e la speranza…”. E, citando Brecht, affermava dolorosamente: “La matrice che ha partorito questo mostro è ancora feconda”. Levi – come molti dei sopravvissuti ai Lager – ha sentito sulle sue spalle l’impellente necessità di dire quello che aveva vissuto. Una specie di atto terapeutico, innanzi tutto. Ma anche un impegno di responsabilità civile nei confronti delle giovani generazioni, in particolare, perché la memoria condivisa di quello che è accaduto impedisca di ripetere gli errori del passato: “Vi comando queste parole / scolpitele nel vostro cuore… ripetetele ai vostri figli”.
Con lo scorrere degli anni, Primo Levi si è più volte chiesto: “Perché la memoria del male non riesce a cambiare l’umanità? A che serve la memoria?”. Cioè, ricordare si deve… ma si può? Ne siamo davvero capaci? Siamo davvero in grado di imparare dalla storia? Le domande di Levi sono anche nostre, dinanzi al persistere e al riacutizzarsi dei tentativi di negare all’altro la dignità di persona: tentativi di trasformare l’altro in un oggetto, che può essere maneggiato o distrutto a piacimento.
Prendere sul serio le parole sofferte di Primo Levi ci aiuterebbe oggi a guardare diversamente il nostro modo di starci accanto e di vivere le nostre relazioni, lunghe o corte che siano. Forse ci potrebbe aiutare a leggere in modo diverso anche il fenomeno delle migrazioni, senza facili e strumentali retoriche, pro o contro. Lo straniero non è un nemico: innanzi tutto, ma una persona. Un uomo, una donna, un bambino…
Non sembrano segnali in questa direzione quelli visti in questi giorni. Penso all’assenza di numerosi sindaci – eccetto due rappresentati dai rispettivi assessori – all’incontro tra il prefetto di Treviso, Laura Lega, e i responsabili delle comunità islamiche del territorio. Sembra un eloquente segno di disimpegno: un non voler affrontare una questione. Penso anche alle reazioni alla notizia, diffusa nei giorni scorsi, secondo la quale una cooperativa proponeva ad imprese del territorio forme di assunzione dei migranti, ospitati presso le proprie strutture. Il prefetto Lega si è fatta garante di fare luce sul fatto, per verificare eventuali illeciti. Tuttavia ci poniamo una domanda: se i migranti non lavorano, sono un peso per la società civile; se si cercano per loro forme di occupazione, si grida allo schiavismo e allo sciacallaggio sulle spalle degli italiani. Infine, in questi giorni alcuni politici si sono lamentati dell’impiego delle forze armate per mettere in sicurezza alcuni centri di prima accoglienza: “I militari dovrebbero presidiare i confini – si dice – e impedire gli sbarchi!”.
Qualche tempo fa, ho visto una foto di una manifestazione pacifica di migranti. Ve n’è uno con in mano un cartello: “Scusate se non siamo affogati”. Allora mi sembrava eccessivo. Col passare del tempo, però, mi sembra che acquisti i contorni di una crescente verità. Torno alla poesia di Levi e mi domando se siamo capaci di vedere nello straniero una persona e di chiederci “se questo è un uomo”.
(*) direttore “L’Azione” (Vittorio Veneto)