Testimonianza/2
Tariq Shahid funge un po’ da portavoce della moschea Malcom X di Harlem e si occupa delle pubbliche relazioni ma rifiuta qualsiasi titolo e preferisce definirsi un membro amichevole della moschea. Dopo l’11 settembre, racconta, “mi sono unito alla Croce Rossa proprio a Ground Zero, assistendo pompieri e soccorritori nei vari cambi turno. Per mesi sono stato lì, un giorno a settimana. Le persone erano scioccate quando magari trovavano pezzi di corpi e noi cercavamo di consolare, di offrire un sostegno e non pensavamo di consolare cristiani, ebrei o musulmani: noi stavamo aiutando esseri umani, persone, famiglie”
Tariq Shahid mi ha accolto a piedi nudi nella sala di preghiera della moschea Malcom X di Harlem. Con garbo e cortesia mi ha invitata a lasciare le scarpe in corridoio e a camminare con lui sui tappeti floreali che ricoprono il pavimento. Il verde impera sulle colonne, sulle pareti e alle finestre dove le frasi del Corano in arabo celebrano gli attributi di Dio. Il frastuono del traffico mi ricorda che siamo a New York e non in Medioriente e questo primo incontro con Tariq apre un dialogo su quella che è ancora una ferita per la comunità afro-americana di fede islamica: l’11 settembre. Lui mi parla subito del ruolo dell’Imam Izak-EL M. Pasha, guida della moschea e si scusa per l’assenza. Lui funge un po’ da portavoce e si occupa delle pubbliche relazioni ma rifiuta qualsiasi titolo e preferisce definirsi un membro amichevole della moschea. Mi racconta che l’imam ha rilasciato un’intervista alla radio alla vigilia dell’11 settembre, delle parole pronunciate allo Yankee stadium il 23 settembre del 2001, quando tutti i leaders religiosi furono invitati ad una preghiera comune perché nelle Torri Gemelle i morti appartenevano a tante nazionalità e a tutte le fedi.
“Io conosco l’Islam e chi ha compiuto quell’orrore non è musulmano e non conosce la nostra religione – mi dice serio. Sono consapevole che per tante persone essere terrorista ed essere musulmano sono un’unica cosa, ma noi siamo anzitutto esseri umani e quello ci fa uguali”.
Dove eri l’11 settembre del 2001?
Ero sulla Second Avenue, a Manhattan, con mia moglie che in quel momento aspettava un bambino. Stavamo andando dal medico e abbiamo capito che stava succedendo qualcosa nella parte bassa dell’isola. Capivamo che era qualcosa di devastante, di tragico e ci ripetevamo: “È incredibile”. L’unica cosa che riuscivo a pensare erano le persone e mi chiedevo quanti stavano perdendo la vita e questa coscienza della perdita era schiacciante. Poi abbiamo scoperto che erano terroristi e ho collegato l’episodio al fatto che l’11/9, la data, coincideva con il numero d’emergenza 911, quello che usi per chiedere un pronto intervento. Una coincidenza sospetta e di impatto allo stesso tempo. Il mio cuore era a pezzi.
Come avete reagito in moschea?
Il sindaco Giuliani stava cercando disperatamente l’imam Pasha che in quel momento era in viaggio. In quel momento drammatico chiedeva la sua assistenza e il suo aiuto. L’imam era cappellano della polizia di New York per gli agenti musulmani e tutti volevano una spiegazione, lo cercavano, avevano bisogno in quel momento drammatico di una sua parola.
E poi si è scoperto che i terroristi erano musulmani. Con quali sentimenti avete dovuto convivere?
Sono consapevole che questa scoperta ha creato un grandissimo disagio in tante persone, ma io conosco la religione dell’Islam e so che un vero musulmano non avrebbe mai fatto questo. I terroristi si sono dati il titolo “musulmani”, ma questo non ti fa essere un seguace autentico dell’Islam. W.D. Mohamed, un nostro teologo e pensatore che ha preceduto nella guida della moschea l’imam Pasha, ci ha sempre detto che gli avvenimenti vanno capiti dentro un contesto e i contesti rivelano i limiti e le frontiere con cui dobbiamo vivere. Sappiamo che per tanti dire musulmano e dire terrorista è la stessa cosa, ma non è così e chi lo dice non conosce a fondo la nostra fede. In quei giorni un giornalista ha chiesto ad uno dei leader islamici cosa fosse un terrorista e lui ha risposto che la domanda andava indirizzata ad un criminologo e non ad un uomo di fede.
Dopo l’11 settembre l’imam Pasha, che tutti conoscevano per la sua integrità, è stato invitato a vari incontri con i capi delle diverse polizie e con le massime autorità del dipartimento di sicurezza e quando in uno di questi appuntamenti si rischiava di prendere di mira in modo indiscriminato i musulmani lui ha chiesto al sindaco di interrompere e di pregare e così è stato perché serviva agire da persone ispirate.
E dopo la preghiera siete passati all’azione…
L’imam ci ha ispirato ed incoraggiato nell’aiutare tutti. Io mi sono unito alla Croce Rossa proprio a Ground Zero, assistendo pompieri e soccorritori nei vari cambi turno. Per mesi sono stato lì, un giorno a settimana. Le persone erano scioccate quando magari trovavano pezzi di corpi e noi cercavamo di consolare, di offrire un sostegno e non pensavamo di consolare cristiani, ebrei o musulmani: noi stavamo aiutando esseri umani, persone, famiglie.
Lì si è incontrata l’umanità senza etichette.
Eri presente alla funzione interreligiosa organizzata dalla città di New York, il 23 settembre del 2001, allo Yankee Stadium?
C’ero. E su quegli spalti eravamo migliaia. C’erano governatori, senatori, politici, il presidente, leaders religiosi. Abbiamo iniziato pregando e poi l’imam Pasha ha tenuto un discorso coraggioso, davanti ad un mondo che ci aveva già classificati come terroristi. Lui ha sottolineato che noi eravamo americani ed eravamo dalla parte del nostro Paese. L’attentato alle Torri Gemelle era stato un atto da codardi che nessun musulmano avrebbe potuto fare. Abbiamo ricordato tutti quelli che erano morti e tra questi c’erano anche trecento musulmani. Non si ricorda spesso questo momento allo stadio e i media, nel tempo hanno dimenticato quella celebrazione, ma io non voglio parlare dei musulmani perché in quell’attacco sono morte migliaia di esseri umani e nulla più, non possiamo classificare per fede.
Dio non ha voluto quel male – ce lo ricordava spesso W.D.Mohamed – perché Lui non può volere il male e l’errore, lo ha permesso perché ci ha lasciato la libertà di scegliere, e purtroppo di scegliere anche il male.
Un male che usa della religione per affibbiare etichette anche alla vostra comunità. Come si combatte il pregiudizio?
L’11 settembre, ma anche gli altri attentati, ci insegnano una lezione che va al di là della tragedia: non possiamo tacere di fronte al male e non possiamo stare in silenzio. Serve parlare forte anche contro le pennellate dei media che in colpo solo ci dipingono tutti come potenziali terroristi e sappiamo che non è vero. Io ho fatto un’esperienza davvero speciale con alcuni gruppi cattolici, con i focolarini ad esempio e non potrei mai parlar male di loro e io mi auguro che ci conosce bene, ci possa sempre difendere. Il bene sta crescendo più del male e va messo in luce, per questo dobbiamo far sentire la nostra voce e trovare spazi di parola non solo localmente, ma globalmente.
Come avete celebrato questo 11 settembre?
Non abbiamo fatto celebrazioni particolari, ma ci siamo uniti a quelle ufficiali. Il memoriale va fatto, ma non va vissuto come se fosse una biblioteca e cioè un luogo per ricordare, sfogliare libri, leggere qualche riga e basta.
Ricordare il passato è uno sprone per non fermarci e per andare avanti puntando al denominatore comune: siamo esseri umani.
Non importa se viviamo in luoghi diversi e per fede siamo musulmani, ebrei, cristiani, anzitutto siamo persone e abbiamo tanto in comune e di questo “comune” dobbiamo far tesoro per staccare le etichette e puntare a ciò che ci unisce, al cuore.