Dopo l'udienza del Papa
Per il vicario episcopale del settore carità e giustizia dell’arcidiocesi di Napoli, l’incapacità della politica di intercettare i veri bisogni della gente, in questo tempo di crisi e di crescenti povertà, favorisce la criminalità organizzata e i poteri occulti, che sanno come pescare nell’insoddisfazione della gente
“Lottare contro le mafie significa non solo reprimere”, ma “anche bonificare, trasformare, costruire”. Ed è una lotta che la “politica autentica” deve sentire come “una sua priorità” perché le mafie “rubano il bene comune, togliendo speranza e dignità alle persone”. Queste le parole di Papa Francesco alla Commissione parlamentare antimafia, durante l’udienza del 21 settembre scorso. Quali sono le ricadute di questo “programma” suggerito dal Pontefice sul territorio? Lo chiediamo a don Tonino Palmese, consulente della Commissione antimafia, vicario episcopale per il settore carità e giustizia dell’arcidiocesi di Napoli, da sempre impegnato in prima linea nella lotta alle mafie.
Il Papa ha iniziato il suo discorso ricordando alcune vittime delle mafie. Quanto la memoria di queste persone fa nascere nei territori una voglia di riscatto?
Dopo tanti anni di memoria e celebrazioni, è necessario ricordare che queste persone sono morte perché noi non siamo stati abbastanza vivi. Sono state uccise avendo attorno un oblio di partenza, un non voler ricordare, un non voler vedere, un non veder progettare. Inoltre, sono state uccise “semplicemente” perché stavano facendo il loro dovere. Le mafie uccidono laddove c’è una normalità che infastidisce la loro anormalità. Da parte della gente il primo moto dovrebbe essere schierarsi dalla parte delle vittime. È l’eterna domanda che ci pongono la civiltà e il Vangelo: tu da che parte stai? Prima ancora di dichiarare i valori umani o trascendenti in cui crediamo, dobbiamo dire da che parte stiamo.
Nelle nostre città, soprattutto nel Sud Italia, stare dalla parte della giustizia e della verità significa cominciare a mettere in pratica le piccole e necessarie norme di legalità fino alle forme più eclatanti di fede, di annunzio e di profezia.
Francesco ha parlato di politica autentica che contrasta le mafie per salvaguardare il bene comune. Un invito che tradotto in pratica darebbe ossigeno ai territori…
La politica approfitta della burocrazia e della sudditanza dei tanti cittadini per rispondere in modo clientelare. Quello che a noi arriva della politica recitata in televisione rispetto ai progetti presenti e futuri di candidati non ci tocca se non nel provocare la pancia delle persone e determinare quindi una reazione viscerale o pro o contro. Dovrebbe preoccuparsi, invece, di rendere la vita migliore per tutti. L’osservatorio privilegiato che ho, e di cui ringrazio Dio, di poter accompagnare ogni giorno alcune povertà antiche e nuove mi fa pensare che siamo in un tempo di grande involuzione dove gli ultimi hanno ancora meno voce.
Quello che arriva dalla politica non ha niente a che vedere con la quotidianità della povera gente: i frigoriferi sono vuoti, le bollette non sono pagate, aumentano disperazione e disagio psicologico, affettivo, il potersi curare sta diventando sempre più un lusso per pochi e una condanna per tanti.
Colgo la bontà del discorso e la furbizia squisitamente evangelica del Papa di dire alla politica non un generico “fate il vostro dovere”, ma “pensate al bene comune”, perché quando non pensa al bene comune, le mafie pensano al bene particolare per loro. Il Papa ha richiamato un’antica nozione:
prima delle parti che vincono e amministrano, c’è il bene comune.
La disperazione della gente è una manna per le mafie…
Se il welfare dello Stato non ha la capacità di far diventare le tasse pagate dai cittadini sollievo per gli ultimi, è chiaro che una delle più grandi carezze seduttive delle mafie è quella di intervenire attraverso un welfare porta a porta che consente alle persone di sentirsi riconosciute da qualcuno. C’è una stanchezza che diventa facilmente seduzione non verso l’appartenenza alla criminalità organizzata, ma verso l’alternativa che è la criminalità organizzata. Nella cultura napoletana e, più in generale, meridionale si va ancora mutuando quello che si diceva negli anni del terrorismo: né con lo Stato né con le Br.
La maggioranza dei napoletani dicono: non con la camorra ma nemmeno con lo Stato. E questa è certamente una forma d’imbarbarimento.
Lotta alle mafie è “bonificare, trasformare, costruire”. Cosa significa tradurre questo invito nella realtà locale?
Significa costruire città a misura d’uomo e uno Stato sociale che dica alle persone: anche se non ce la fate, lo Stato c’è. La disaffezione, dalla politica allo Stato, non porta privilegi a nessuno se non alle mafie e ai poteri occulti che sanno come pescare nell’insoddisfazione della gente.
Quanto è difficile far crescere la coscienza civile nei territori in una situazione di disagio come quella attuale?
Il tema di fondo resta sempre la cultura.
È chiaro che in una stagione come la nostra in cui la scuola ha difficoltà a reggere e in cui manca la possibilità di trovare i luoghi preposti a educare le coscienze la semplificazione prende il sopravvento. E con essa l’imbarbarimento.
Io ho paura di questa semplificazione che i media propongono in tv quando mettono a confronto le pance dei poveri contro le pance di altri poveri. Questo confronto-scontro crea una zona franca per il razzismo e l’intolleranza. Mi fa impressione vedere i poveri, che invece di orientare la loro vita verso un progetto di bene comune, avvertono l’altro come un nemico senza averlo sperimentato sulla propria pelle, ma solo perché il tam tam delle notizie prova a convincerli che il nemico non è la mancanza di uno Stato che progetta a favore degli ultimi ma l’ingresso dei nuovi che possono determinare la sofferenza dei vecchi.