Solidarietà
Don Luca Monti è il fratello di Simona, una delle nove vittime italiane della strage di Dacca del 1° luglio 2016. Dopo l’attentato si è fatto promotore, attraverso Acs, della costruzione di una chiesa/struttura in un villaggio dell’entroterra nella diocesi di Khulna, guidata dal vescovo James Romen Boiragi
Don Luca Monti è il fratello di Simona, una delle nove vittime italiane della strage di Dacca del 1° luglio 2016, protagonista di un progetto per la costruzione di una chiesa in Bangladesh all’indomani del terribile evento.
Trentuno anni, originario di Magliano Sabina, svolge il suo ministero sacerdotale nella diocesi di Avellino, parroco della parrocchia dei Santi Apostoli Pietro e Paolo (comune di Santa Lucia di Serino, paese natale di san Giuseppe Moscati).
Racconta il perché del suo progetto per i cristiani del Bangladesh e le riflessioni che ne sono scaturite, alla vigilia del viaggio di Papa Francesco.
Don Luca, com’è nato il progetto che ti ha portato in Bangladesh poco dopo l’attentato di Dacca in cui tua sorella ha perso la vita?
Nel momento più forte della sofferenza appena tornate le salme in Italia, mentre si organizzavano le esequie di mia sorella Simona. Da un confronto veloce con la mia famiglia è emerso da subito il bisogno di imprimere un sigillo d’amore a quella terribile storia e coinvolgere i tanti che avrebbero partecipato al funerale.
Il mio pensiero è andato ai cristiani perseguitati del Bangladesh.
La ricerca e la preghiera mi hanno indirizzato alla fondazione di diritto pontificio “Aiuto alla Chiesa che soffre” che da decenni si occupa di progetti umanitari e pastorali in tutti i Paesi del mondo.
L’ho trovata una strada rassicurante, fidata… Tra i progetti attivati in Bangladesh ho individuato quello per la costruzione di una chiesa/struttura in un villaggio dell’entroterra nella diocesi di Khulna, guidata dal vescovo James Romen Boiragi. L’edificio sacro sarebbe stato dedicato all’Arcangelo Michele; quando poi mi sono ricordato che il bambino che mia sorella portava in grembo si sarebbe dovuto chiamare Michelangelo, ho colto un segno profetico nella scelta compiuta.
Il giorno delle esequie, la beneficenza dei presenti è stata piuttosto generosa e nei giorni successivi abbiamo destinato la somma per il progetto che nell’arco di pochissimo tempo è stato realizzato.
Nel concreto, di cosa si è trattato?
Alla tettoia utilizzata dai pochi e poveri cristiani di quel villaggio per la preghiera e l’accoglienza dei bambini è stata sostituita una bella chiesa in cemento, secondo una armoniosa architettura asiatica – bella vederla emergere nella foresta! – in cui oltre alle celebrazioni la comunità organizza attività pastorali ed educative.
Da una vicenda di dolore e di odio, un gesto di grande generosità. Cos’è che genera tutto questo? Che lettura siamo capaci di dare a questa reazione di fronte al dolore…?
Sin dai primi momenti della tragedia ho percepito nell’aria un “non so che” di profezia: non è un caso la visita di Papa Francesco tra non molto, e a distanza di poco tempo dall’incontro che il Pontefice ha avuto con noi familiari delle vittime di Dacca il 22 febbraio. In un verso di padre Ermes Ronchi, a me tanto caro, le parole “Tu sei per me, ciò che la primavera è per i fiori”, trovo la sintesi di tutto questo: non lo so cosa sia la primavera per i fiori, forse un’opportunità, un’energia nascosta, un amore che esplode in una stagione della vita del mondo. Linfa nascosta che chiamo carità, presenza di Dio, esperienza che supera ogni emotività passeggera e non mi lascia cadere in un eterno senso di sconfitta, di vendetta o rivendicazione.
Sei stato in Bangladesh per l’inaugurazione di questa chiesa. Che umanità hai incontrato? E quale risposta hai trovato rispetto al dono fatto?
Essere partito lo stesso giorno dell’incontro con Papa Francesco ha dato un valore aggiunto alla mia missione pastorale in Bangladesh, che ho vissuto non come una questione di orgoglio familiare, ma come la scoperta urgente di un mondo cristiano a me sconosciuto.
Ho trovato un’umanità povera di pane ma ricca di gioia e fede, grata per il dono ricevuto ed estremamente rispettosa per l’ospite che sono stato.
Un ricordo particolare…?
Ho visto i bambini di quel villaggio correre incontro al loro vescovo con la gioia di poter abbracciare il Pastore: ho pensato ai nostri giovani annoiati e preoccupati delle omelie presumibilmente lunghe in occasione dei loro incontri in chiesa con i nostri vescovi. Accanto a quella scena felice ho rivisto quella di un occidente cristiano stanco e annoiato nei confronti del Vangelo.
Sul posto, quale sensibilità rispetto alla strage, da cui poi è scaturito il tuo dono?
Una sensibilità ferita e mortificata. Nel villaggio ho conosciuto un uomo vissuto a Roma per qualche anno con il quale ho scambiato poche parole in italiano. “Dal primo luglio siamo diventati tutti assassini”, mi ha detto. Ho risposto solo con un abbraccio.
Cosa suscita tutto questo nella vita di un prete alle prese con dimensioni parrocchiali più comodamente occidentali?
Non sono cambiato, ma di sicuro sono stato messo in discussione. Vivo una nuova stagione di amore per Cristo, tra il buio e la luce, scorgendo nel frattempo, l’aurora. Mi sento pertanto un sacerdote in cammino con una visione del mondo più realista, e di sicuro accompagnato dalla preghiera silenziosa e discreta della mia gente.
Papa Francesco sarà in Bangladesh dal 30 novembre al 2 dicembre. Cosa ti aspetti dal suo viaggio?
Porterà come sempre amore nelle periferie esistenziali e sociali. La sua, sarà ancora una volta la carezza e la spinta ad andare avanti.