Agricoltura
Il responsabile nazionale welfare delle Associazioni cristiane lavoratori italiani, Antonio Russo, denuncia ritardi e difficoltà nella concretizzazione del provvedimento, a un anno dall’approvazione, e la presenza ancora di ghetti, come nel Borgo Mezzanone, nel Foggiano
Ad un anno dalla legge 29 ottobre 2016 sulle “Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo”, quali risultati sono stati raggiunti nella lotta al caporalato? Ne parliamo con Antonio Russo, responsabile nazionale welfare delle Acli.
Quali frutti ha portato la legge di contrasto al caporalato?
A un anno dall’approvazione della legge, purtroppo, dobbiamo dire che essa non ha trovato sufficiente applicazione.
Tra l’altro, ci sono altri due provvedimenti, che vanno posti in relazione alla legge contro il caporalato: il protocollo nazionale firmato un anno e mezzo fa per regolamentare i rapporti tra le organizzazioni agricole e i lavoratori e la “Rete del lavoro agricolo di qualità”, un sistema pubblico di certificazione etica del lavoro. Un dato preoccupante è che su 100mila aziende agricole solo 2mila hanno aderito alla “Rete”. In questo quadro s’inseriscono alcune situazioni critiche legate ai migranti economici, come nel Foggiano. A Capitanata, in provincia di Foggia, è stato sgomberato il ghetto di Rignano Garganico, una vergogna a cielo aperto, ma i lavoratori si sono spostati accanto al Cara di Borgo Mezzanone, a 108 km da Foggia, una pista di un vecchio aeroporto militare, dove hanno costruito una baraccopoli, che ho visitato di recente, un’altra vergogna a cielo aperto. Il problema si è solo spostato da un’altra parte. I caporali, italiani e stranieri, continuano a mettere in rapporto i lavoratori agricoli con le aziende, trasportandoli sui luoghi di lavoro e chiedendo 5 euro al giorno, tutto come prima.
Ma come è possibile che ci sia un nuovo ghetto?
La Regione Puglia, in collaborazione con il ministero dell’Interno, quando fu sgomberato il vecchio ghetto a Rignano, annunciò che ci sarebbe stata la costruzione di un luogo nel quale gli immigrati sarebbero stati accolti in maniera dignitosa, grazie a un sistema di rotazione. Credo ci sia un ritardo su questo. È urgente da parte dello Stato pensare come affrontare la questione perché ci sono ghetti simili in altri luoghi. Qui non stiamo parlando di persone che rubano il lavoro o non producono ricchezza. Senza questi lavoratori alcuni prodotti resterebbero sulla pianta. Anche nel campo della pastorizia se non ci fossero pastori che vengono da altri Paesi, avremmo grossi problemi. Non sarebbe più opportuno, allora, pensare per questi migranti economici con il permesso di soggiorno temporaneo a strutture di accoglienza a pagamento? Se un lavoratore è pagato il giusto, si può pagare l’alloggio, il vitto, la sanità.
L’emersione dell’irregolarità conviene sempre alla democrazia e alla trasparenza del Paese, certo non alle mafie.
Stiamo parlando di un fenomeno organico alla nostra società. D’altra parte, che noi abbiamo bisogno di lavoratori stranieri è indubbio: solo i seminatori di odio e gli imprenditori della paura non lo dicono.
Quali sono i passi da fare?
Bisogna ritornare al tavolo nazionale con le grandi organizzazioni agricole e chiedersi per quale motivo non si riesce a far emergere la sacca di lavoro nero, sommerso, in schiavitù, irregolare, che crea un danno non solo umano, ma anche fiscale e contributivo. All’apertura della Settimana sociale di Cagliari, nel suo videomessaggio Papa Francesco ha ricordato che senza lavoro non c’è dignità e che ci sono dei lavori indignitosi. Dobbiamo capire che
nella legalità
lavorano meglio tutti. In più, bisogna aumentare la presenza dello Stato. La legge contro il caporalato va nella direzione giusta, gli strumenti ci sono, ma le ispezioni sono molto poche, i nuclei ispettivi sono ridottissimi e, per questo, non sono in condizione di fare verifiche su migliaia di ettari di terra coltivata. È necessario anche un continuo lavoro di sensibilizzazione prevalentemente culturale, da parte delle Acli e dei sindacati, per far maturare un nuovo approccio alle regole e al rispetto dei lavoratori. Se non ripartiamo dalla dignità delle persone, non cambieremo mai la situazione. Così stiamo perdendo un’altra buona occasione per rendere più civile questo Paese.
Ci sono numeri del fenomeno del lavoro “indegno”?
È difficile fare un calcolo perché parliamo di lavoro stagionale, con braccianti che passano dalla campagna degli agrumi in Sicilia o in Calabria alla raccolta di pomodori in Puglia per giungere fino in Trentino per la raccolta delle mele. Il fenomeno del lavoro sottopagato è abbastanza diffuso in tutta Italia, anche se con “tinte” diverse. Complessivamente possiamo arrivare anche a 800/900mila persone che ogni anno fanno un lavoro di questo tipo.
Che peso hanno in tutto ciò le mafie?
Chi contribuisce a far sì che il fenomeno persista è la criminalità organizzata, che si sostituisce allo Stato. Quando non c’è un riferimento sicuro e legale che dovrebbe funzionare come un tradizionale punto di incontro tra domanda e offerta di lavoro, con un’agenzia che garantisce la regolarità del contratto di lavoro in modo da assicurare i diritti soggettivi e i doveri del lavoratore, le persone purtroppo continuano a rivolgersi ai caporali per lavorare.
Cosa può dire dei protocolli territoriali che dovevano essere firmati dopo la legge sul caporalato?
Anche qui si dovrà fare una verifica. Attraverso questi protocolli era possibile aprire un tavolo territoriale, attorno al quale si sarebbero dovuti sedere le organizzazioni agricole, i lavoratori, i sindacati, le associazioni, il prefetto, per calare la legge nella realtà locale. Alcuni hanno firmato i protocolli e altri no. Abbiamo un enorme ritardo, che si traduce nel perpetrarsi dello sfruttamento nei campi, ma, per noi,
sui diritti umani dei lavoratori e delle persone non si dovrebbe mai giocare al ribasso.