Viaggi apostolici
“Il nostro Paese ha bisogno di pace”. Esordisce così il cardinale Charles Bo, arcivescovo di Yangon, in una lunga intervista al Sir in cui racconta le aspettative dei 700.000 cattolici del Myanmar in vista della visita di Papa Francesco dal 27 al 30 novembre, per poi proseguire in Bangladesh fino al 2 dicembre. Il card. Bo non teme di fare chiarezza sulla crisi dei Rohingya e i diritti delle minoranze etniche e sulle difficoltà della transizione democratica del governo di Aung San Suu Kyi
La pace e i diritti delle minoranze etniche in Myanmar. La povertà e le ingiustizie sociali. La fuga in Bangladesh di oltre 700.000 Rohingya perseguitati dall’esercito nello Stato interno di Rakhine e i timori della popolazione di infiltrazioni di terroristi provenienti dalla Siria. Il dialogo interreligioso con il buddismo theravada. Il difficile cammino della transizione democratica del governo civile di Aung San Suu Kyi costretta a venire a patti con l’esercito, che ha ancora un forte controllo di alcuni ministeri-chiave e di importanti settori economici e potrebbe riprendere il potere senza l’appoggio della comunità internazionale. Risponde a ruota libera alle nostre domande il cardinale Charles Bo, arcivescovo di Yangon, che si prepara ad accogliere la visita di Papa Francesco, dal 27 al 30 novembre, insieme alla piccola comunità cristiana del Myanmar, circa 700.000 persone appartenenti per lo più a minoranze etniche.
Quali sono le aspettative dei cattolici in vista della visita di Papa Francesco?
Il Papa viene per una visita pastorale. I nostri cattolici hanno un grande amore nei suoi confronti e credono che verrà come pellegrino di pace per dare inizio ad una nuova alba di pace.
Il nostro Paese ha bisogno di pace.
Il Papa è un leader mondiale, la sua visita in questa terra aiuterà altre persone religiose, specialmente la maggioranza buddista, a comprendere meglio la Chiesa. Di questi due temi – amore e pace – c’è molto bisogno a tutti i livelli: famiglia, comunità e nazione. La nostra gente ha un ricco patrimonio etnico e molti sono stati discriminati. Tanti sono rifugiati e sfollati.
Perciò la presenza del Papa sarà una guarigione per il nostro amato popolo.
Perché Papa Francesco ha scelto di visitare Myanmar e Bangladesh insieme? Cosa lega i due Paesi?
Il Papa è un pastore eccezionale che va alla ricerca delle pecore che vivono ai margini delle società. Egli ha “innalzato gli umili” come canta Maria nel suo Magnificat. Papa Francesco ha già benedetto le due Chiese del Myanmar e del Bangladesh attraverso la creazione di due cardinali. Noi siamo pochi: in Myanmar vivono 700.000 cattolici, in Bangladesh meno di 400.000. È come quando Gesù disse a Zaccheo “Vieni giù, voglio visitare casa tua”. Come Zaccheo siamo scioccati dalla sua compassione ma sappiamo anche che egli ama le persone ai margini, ama il piccolo gregge in queste nazioni.
Vi aspettate che aprirà nuove strade per il dialogo interreligioso?
Sì, ho una grande fiducia nel dialogo interreligioso; abbiamo contribuito ad ospitare la prima iniziativa interreligiosa per la pace nel nostro Paese.
Il Papa incontrerà i monaci buddisti e altri leader religiosi. Il suo messaggio sarà: come le religioni possono unirsi per costruire la pace.
Sono molto fiducioso che la sua personalità e il suo messaggio scioglieranno i cuori delle persone intransigenti che abusano della religione, e riuscirà a renderla invece uno strumento di pace.
Dopo la sua visita la Chiesa in Myanmar lavorerà sodo per mettere in campo iniziative interreligiose. Lavoreremo per la pace e l’amicizia tra le comunità.
La Chiesa cattolica ha conquistato la fiducia di tutte le comunità e può mobilitarle ai fini della pace.
In Myanmar molti gruppi etnici e minoranze non vivono in pace, qual è la situazione dei diritti umani?
Il Papa ha affrontato questi temi altrove. I suoi scritti parlano delle due ingiustizie contro la volontà di Dio: l’ingiustizia economica (Evangelii Gaudium) e ingiustizia ecologica (Laudato si’). La nostra gente rappresenta un triste esempio di queste due ingiustizie.
Negli ultimi 60 anni la nostra popolazione ha subito gli effetti di una economia clientelare e dello sfruttamento delle risorse naturali. Questi due mali hanno reso povera l’80% della popolazione, di cui il 40% in povertà assoluta.
La povertà è una realtà asfissiante. Il senso di ingiustizia ha spinto molti gruppi a cercare soluzioni, a volte pacifiche, a volte attraverso conflitti armati. È stato pagato un prezzo molto alto, con migliaia di sfollati e centinaia di vittime. Il Papa parla chiaro: non esiste pace senza giustizia. Dal 2010 i diritti civili e politici hanno iniziato a conquistare uno spazio maggiore. Ma la nostra gente appartiene a minoranze etniche: per loro i diritti economici, sociali e culturali sono importanti e tristemente assenti.
Questo spiega la natura cronica dei conflitti. Senza diritti, non c’è pace.
Tutti i media internazionali parlano della crisi dei Rohingya: anche Papa Francesco ha espresso più volte la sua preoccupazione. Qual è la situazione sul campo?
Questo è un tema molto complicato, reso ancora più complicato dai media.
Il Myanmar ha visto molte crisi umanitarie negli ultimi 60 anni. Circa 1 milione di persone sono sfollati interni. I Kachin, la maggioranza sono cristiani, vivono in campi per rifugiati.
I media internazionali si stanno concentrando sul tema dei Rohingya, e questo è necessario, ma stanno dimenticando altre tristi crisi umanitarie. I diritti di cittadinanza sono un tema importante e devono essere valutati non solo dalla popolazione locale ma dalla comunità internazionale. Non solamente i Rohingya ma anche molti cristiani, di origine indiana, non hanno diritto alla cittadinanza, pur vivendo qui da oltre quattro generazioni. Quindi il governo non è responsabile solo nei confronti di una comunità. L’atto di cittadinanza fu varato nel 1982 da una giunta militare e ha bisogno di essere rivisto dal governo civile di Aung San Suu Kyi.
L’esodo recente è molto triste e commovente. Di sicuro il governo avrebbe potuto gestirlo meglio. Ma il governo civile ha un ruolo limitato all’interno della governance del Paese.
Non possono controllare i militari in molti modi. Gli eventi recenti hanno visto una risposta molto forte dei militari con migliaia di persone in fuga. Inoltre in tutto il mondo c’è una crescente islamofobia. Molti Paesi occidentali hanno emesso leggi per vietare l’ingresso di musulmani. Anche il Myanmar reagisce in un modo che non appartiene alla sua tradizione. L’esodo è una tragedia. Ma dobbiamo ricordare che è stato innescato da un attacco terroristico. C’era già stato un attacco nell’agosto 2016 e le vittime del conflitto non hanno lasciato il Paese, sono rimaste nei campi.
Stavolta c’è la percezione che estremisti violenti proveniente dalla Siria stiano venendo in Myanmar per aprire un fronte. Questa percezione spaventa quasi tutti qui, perciò la popolazione sostiene l’azione dell’esercito.
Quale può essere una soluzione?
Che ognuno comprenda veramente la situazione sul campo, senza affrettarsi subito a condannare. Il governo del Myanmar deve capire che le leggi sui diritti di cittadinanza vanno riviste da corpi neutrali. La comunità internazionale deve comprendere la paura della popolazione del Myanmar e del governo riguardo a reazioni radicali provenienti da fuori.
Tre anni dalla vittoria di Aung San Suu Kyi: qual è il suo bilancio?
Aung San Suu Kyi è come un’infermiera che deve accudire un paziente che sta uscendo da una lunga malattia. Il Myanmar è stato malato di totalitarismo per 60 anni.
Lei ha preso le redini solo 18 mesi fa. Ci sono sfide enormi davanti e le tocca passare attraverso un cappio molto stretto. Un passo sbagliato può costare caro. Tutti dovrebbero capire che per trattare con l’esercito c’è bisogno di grande democrazia. L’esercito ha preso per due volte il controllo del governo in passato. Nel 1990, quando Aung San Suu Kyi vinse in maniera schiacciante, l’esercito si rifiutò di riconoscerla e la rimandò agli arresti.
Lei vuole che la democrazia si stabilizzi, perciò ha bisogno della buona volontà dell’esercito.
Come persona ha dimostrato grande auto-disciplina e capacità di lavorare sodo. Come donna deve confidare in persone di cui ha fiducia. Sfortunatamente si tratta di un circolo ristretto, che non ha competenze su come costruire una nazione. Per questo motivo si muove lentamente. Il progresso economico è lento, l’industrializzazione e gli investimenti stranieri diretti non sono al livello che ci si aspettava. Potrebbe coinvolgere esperti di economia e affari.
Molti accusano Aung San Suu Kyi di aver parlato troppo tardi dei Rohingya e di non aver condannato a sufficienza le violenze dell’esercito…
Con la questione musulmana nello Stato di Rakhine è vero che lei ha tardato a pronunciarsi. Noi lo abbiamo puntualizzato in molte interviste ma lei non ha condannato la violenza. Ha promesso di consegnare alla giustizia tutti coloro che hanno violato la legge e i diritti umani. Ma questo è un compito arduo. Purtroppo in questo periodo è stata stigmatizzata dai media internazionali.
Ma un vuoto di potere porterebbe benefici solo all’esercito e la nazione potrebbe tornare ai tristi giorni del passato.
Perciò la maggioranza dei cittadini del Myanmar la sostiene. La storia la giudicherà. Molti sostenitori occidentali hanno ritirato il loro supporto. Lei ha bisogno di loro e loro hanno bisogno di lei se una vera democrazia dovrà fiorire in questa nazione. Ha 72 anni e ha bisogno di tutte le nostre preghiere e di tutto il nostro aiuto.