Guerra in Siria
La dichiarazione congiunta, al summit Apec in Vietnam, di Usa-Russia per una soluzione negoziata e non militare della guerra, la sconfitta militare dello Stato islamico, sembrano favorire l’uscita della Siria dal conflitto in cui è piombata da oltre sette anni. Per padre Bahjat Elia Karakach, parroco a Damasco, ora si intravede “un orizzonte”. Ma perché questo si realizzi veramente è urgente promuovere una cultura di accoglienza e di tolleranza, necessaria a estirpare la mentalità dell’Isis e a ricostruire una Siria migliore. Primo mattone della rinascita siriana sono i bambini, “la garanzia migliore per il futuro della Siria”
No alla soluzione militare alla crisi siriana e impegno a sostenere la “sovranità, l’indipendenza e l’integrità territoriale della Siria”. È quanto emerge dalla dichiarazione congiunta del presidente russo, Vladimir Putin, e di quello Usa, Donald Trump, diffusa dopo un colloquio al vertice Apec che si è svolto in Vietnam. Per i due leader mondiali “la soluzione politica definitiva del conflitto deve essere trovata nel processo negoziale di Ginevra”.
Un auspicio condiviso da padre Bahjat Elia Karakach, francescano della Custodia di Terra Santa. Originario di Aleppo, dal 2016 padre Karakach è il guardiano del convento della Conversione di San Paolo, a Damasco, e parroco della locale comunità latina composta da circa 250 famiglie, frequentata anche da molti cristiani appartenenti ad altri riti. Con lui proviamo a fare il punto sulla crisi siriana, che dopo la sconfitta militare dell’Isis, pare essere giunta ad una svolta.
Padre Karakach, sembra che la guerra stia lentamente finendo e che la Siria possa riprendere a vivere. È davvero così? Qual è la situazione nel Paese?
Oggi c’è più speranza rispetto a un anno fa, abbiamo un orizzonte. La svolta si è consumata dopo la presa di Aleppo (dicembre 2016, ndr.). Oggi avvertiamo un miglioramento della vita quotidiana, a Damasco, per esempio abbiamo di nuovo l’erogazione di energia elettrica per 24 ore, alcuni servizi pubblici stanno tornando alla normalità e questo rende più facile la vita quotidiana della popolazione. Tuttavia bisogna dire che
la ripresa è lenta perché i nostri giovani sono ancora al fronte.
Ci sono infatti ancora zone del Paese dove sono presenti gruppi terroristici.
L’Isis, con la caduta della sua ex roccaforte, Raqqa, sembra sconfitto militarmente. Resta aperto l’altro fronte quello del conflitto tra governo e ribelli, una partita importante per il futuro della Siria.
Lo Stato islamico è stato sconfitto militarmente ma la sua ideologia terroristica è ancora piuttosto diffusa e in futuro potrebbe trovare spazio in altre sigle e nomi. Questa è la vera guerra che avvertiamo quotidianamente.
Infondere e promuovere una mentalità di apertura e di accoglienza dell’altro è un compito di tutti, anche di chi si ritiene un oppositore aperto, civile, che non imbraccia le armi e che sa dialogare e negoziare per una Siria migliore.
Molti analisti sostengono che in Siria si combatte una guerra per procura, dove a fronteggiarsi sono gli interessi di potenze regionali e non. Cosa prova nel vedere la sua terra trasformata da altri in un campo di battaglia?
Sicuramente rabbia. Vedere questo mi fa capire quanto sia importante la Siria che per secoli ha rappresentato un modello di convivenza e di tolleranza. Ora
qualcuno ha deciso che il mosaico deve essere rotto.
Per evitare questa tragedia confido molto nei tanti siriani, uomini e donne di buona volontà, capaci e coscienti, che hanno una visione buona e positiva per costruire una Siria migliore.
Visti i grandi interessi in gioco non teme per la sovranità futura della Siria?
Un timore di questo tipo lo abbiamo avvertito maggiormente qualche anno fa.
Oggi mi pare che la Siria abbia vinto in termini di sovranità.
C’è una verità innegabile ed è quella che il terrorismo si sta riducendo e che la Siria, nonostante tutto, può tornare ad essere un luogo in cui si può vivere, dialogare grazie a persone capaci di farlo. Più che timore oggi ho molta speranza per il futuro del mio Paese.
Bisogna riconoscere che se lo Stato islamico è stato sconfitto militarmente questo lo si deve anche agli interventi – da sponde opposte – di russi e americani. Non crede che le due potenze vorranno qualcosa in cambio, a questo punto?
Nei giochi politici ci sono spese da pagare. Indipendentemente da ciò, permane forte la volontà dei siriani di continuare a vivere in un Paese libero. Su questo non nutro alcun dubbio.
Prima ricordava come la Siria sia sempre stata un crocevia di fedi e culture. Cosa avete fatto in questi anni di guerra come comunità cristiana per preservare questo mosaico?
Quello che abbiamo sempre fatto in tanti secoli di presenza in Siria:
essere aperti e accoglienti verso tutti, senza distinzione di fedi, etnie, culture. Così facendo speriamo di essere un segno profetico non solo per la Siria del futuro, ma per tutto il Medio Oriente.
La Siria potrebbe tornare ad essere un modello di convivenza adottabile da tanti altri Paesi della regione.
Parlando di accoglienza non si possono dimenticare i milioni di rifugiati e di sfollati interni provocati dalla guerra. Torneranno tutti? Vede un futuro per i cristiani, e le altre minoranze, nella Siria che verrà?
Bisogna essere realistici: non tutti torneranno. Ma c’è già chi comincia a fare rientro nelle proprie abitazioni.
La dispersione provocata da anni di conflitto potrebbe diventare una risorsa per il Paese se venisse sfruttata in termini di apertura culturale, sociale e religiosa. Quel mosaico che è la Siria potrebbe così arricchirsi di nuovi pezzi e ampliarsi ulteriormente.
Molti siriani che ora sono all’estero nutrono un forte desiderio di tornare e di aiutare per ricostruire una Siria migliore.
Da dove cominciare per ricostruire una Siria migliore?
Ricominciare dai bambini. Bisogna ripartire dall’educazione, dall’istruzione, dalla formazione perché un Paese che ha subito una tale violenza ha anche difficoltà a rimettere in piedi un sistema educativo. Mi auguro che anche noi, come comunità cristiana, possiamo dare il nostro contributo per guarire le ferite causate dalla guerra. Molti dei nostri bambini sono traumatizzati, hanno visto scene inaudite di violenza, sono nati durante il conflitto. Nel nostro santuario della Conversione di san Paolo abbiamo portato avanti un progetto di sostegno psicologico per i più piccoli. Il 70% di loro erano musulmani. Lo scopo era riportarli ad una vita normale, ma ci vorrà tempo.
Ripartire dai bambini è la garanzia migliore per il futuro della Siria. E poi dal dialogo.
Stiamo pensando ad una sorta di centro in cui persone di fedi ed etnie diverse possano dialogare e condividere momenti di vita anche in campi come l’arte, la musica, il teatro. Tutti quei valori umani che possono garantirci una vita migliore.