Migranti
Gli hub, le macroaccoglienze non sono la soluzione giusta al problema rappresentato dal crescente numero di richiedenti asilo. Ma quanto a lungo è immaginabile che decine di persone si spostino nel territorio, confidando nell’ospitalità delle parrocchie? E ancora: è possibile per la chiesa “accogliere” senza un dialogo e uno stretto coordinamento con le istituzioni? Perché solo la cornice delle leggi può garantire il rispetto di tutti i valori e i diritti in gioco: quelli dei migranti, ma anche quelli della popolazione locale e del territorio.
Diciamolo subito e diciamolo nella maniera più netta a scanso di equivoci.
Gli hub, le macroaccoglienze non sono la soluzione giusta al problema rappresentato dal crescente numero di richiedenti asilo. E non lo sono per tante ragioni, non solo perché le strutture individuate – di solito vecchie basi militari in disuso – non hanno i requisiti necessari. Fossero anche resort a cinque stelle, costringere centinaia di persone ad attendere per un tempo lunghissimo, senza la possibilità di impegnarsi in una qualche attività, senza un minimo di privacy, senza efficaci percorsi di inserimento, significa creare le condizioni per un’emergenza continua. E significa fatalmente scaricare su un solo territorio e sulla sua popolazione un peso eccessivo.
La nostra Chiesa lo ha detto tante volte, e non si è fermata alle parole.
Si è impegnata concretamente per offrire un’alternativa fatta di microaccoglienze in parrocchia, di strutture concesse alle cooperative, di percorsi culturali e di sensibilizzazione nel territorio. Sono gli “esercizi di accoglienza” che abbiamo raccontato tante volte da queste pagine e che due settimane fa abbiamo condensato nell’inserto allegato alla Difesa.
È a partire da questa esperienza concreta – che conoscerà una nuova tappa dal forte valore simbolico con la Marcia per la pace del 14 gennaio ad Agna – che nei giorni scorsi si è cercato di costruire il dialogo con tutte le istituzioni coinvolte per affrontare il caso dei migranti di Cona, usciti in corteo con l’obiettivo di raggiungere Venezia e protestare per le condizioni di vita all’interno della base.
Un primo gruppo ha trovato ospitalità per la notte in chiesa a Codevigo.
Un secondo, arrivato a Piove di Sacco, è stato ospitato in un locale della parrocchia del Duomo e quindi in seminario minore a Rubano il giorno successivo, per poi riprendere il viaggio verso la prefettura di Venezia.
Non è stata una scelta facile, come ha dimostrato la conferenza stampa del vicario episcopale don Marco Cagol e del direttore di Caritas diocesana don Luca Facco martedì scorso. Al punto che, dopo la tappa di Piove, era emerso l’orientamento di non aprire più le porte delle parrocchie, con una decisione poi derogata la stessa notte solo su esplicita richiesta della prefettura di Padova per agevolare la ricerca di una soluzione condivisa e per ragioni di ordine pubblico.
Il cuore del problema, però, rimane immutato, così come la fatica e la sofferenza di chi ha la responsabilità di decidere quando decine e decine di persone si trovano ad affrontare una notte di fine novembre all’aperto. Può, la chiesa, non aprire le porte? Può rifiutarsi a un’accoglienza “a prescindere”? O non è chiamata, per fedeltà al vangelo, a mettere ogni altra considerazione da parte?
Provare a rispondere richiede un supplemento di riflessione, per evitare di cadere nell’equivoco di chi immagina esistano soluzioni semplici a problemi complessi.
Nell’emergenza, si aprono le porte. Una volta, due volte, tre volte… ma qual è il limite, il confine dell’emergenza? Quanto a lungo è immaginabile che decine di persone si spostino nel territorio, confidando nell’ospitalità delle parrocchie?
Questo è un primo interrogativo da soppesare bene. Poi, ce ne sono altri: chi li guida – esponenti dei sindacati di base – con quale scopo bussa alle varie porte? E con quali possibili conseguenze, sullo status di queste persone che rischiano concretamente di perdere anche quel poco fin qui ottenuto?
Stiamo facendo il loro bene, in questo modo? Ancora: è possibile per la Chiesa “accogliere” senza un dialogo e uno stretto coordinamento con le istituzioni? Non si rischia di compromettere così il percorso già fatto?
Su tutte, c’è poi una questione di fondo. Se le macroaccoglienze non funzionano – e non possono funzionare – la risposta va cercata con uno sforzo comune, ma sempre nell’alveo della legalità. Perché solo la cornice delle leggi può garantire il rispetto di tutti i valori e i diritti in gioco: quelli dei migranti, ma anche quelli della popolazione locale e del territorio. “La protesta è sacrosanta – riassumeva efficacemente don Luca Facco – ma dopo la protesta bisogna tornare a Cona”.
Non c’è altra strada possibile, finché non viene individuata dalle autorità una soluzione diversa.
C’è, invece, un di più di responsabilità che da questi giorni viene a ciascuno di noi.
Scrivere su Facebook “Rimandateli in Africa” è tanto facile quanto illusorio, oltre che volgare.
Gli hub si possono superare in un solo modo, ed è quello di moltiplicare i progetti Sprar, le microaccoglienze, i percorsi di integrazione. C’è un peso da condividere, perché non gravi sulle spalle di pochi rischiando alla fine di schiacciarli.
Le porte delle parrocchie, in queste notti convulse, hanno continuato ad aprirsi. Sarebbe bello si aprissero un po’ di più anche le porte dei nostri cuori. E delle nostre menti.
(*) direttore “La Difesa del Popolo” (Padova)