Editoriale
I presepi ci piacciono perché non sono solo arte ma segno di fede, messaggio di amore universale. E invito all’accoglienza. Per questo non si può non cogliere la contraddizione di volere il presepe, ma non quanto rappresenta. Di accogliere un bambino di plastica, ma non quelli veri che sbarcano o che vivono in un campo in attesa di quel mondo migliore di cui noi già godiamo
Dopo anni di grotte censurate e canzoncine tabù, il presepe torna alla grande. Non solo in manifestazioni, mostre e altre iniziative che accompagnano ad un Natale meno infiocchettato e più significante. Torna anche negli annunci della politica. Dal Veneto, ad esempio, è partita la proposta di finanziare i presepi nelle scuole per il Natale 2018.
Non che i presepi ci diano fastidio: tutt’altro. Sono stati difesi a spron battuto più e più volte dalle colonne di questo settimanale. Ci piacciono: in casa, in classe e in piazza. Ci piace ammirarli quando sono pregiate opere d’arte, quando sono il frutto della sapienza artigiana della nostra terra, quando nei paesi si fanno sfide di fantasia, quando in chiesa il sacerdote o i volontari si industriano per realizzazioni sempre nuove. Quando sono rimescolati dalle mani curiose dei bambini che passano i loro primi natali a spostare le statuine tra il muschio e così prendono confidenza col Bambinello, Maria e Giuseppe, con i pastori inginocchiati, con un Natale che – da grandi – perderanno e rimpiangeranno un po’. Ci piacciono anche realizzati e contemplati, nelle lunghe ore vuote, dagli anziani che vivono soli e, recuperando il materiale da una scatola di latta che ha quasi la loro età, allestiscono la natività di sempre, sentita più vicina ogni anno che passa, da quando i fili d’argento sono più tra i capelli che sull’albero. Le loro mani, ormai più tremanti che curiose, sfiorano quel mistero al quale sentono che la loro stessa vita si avvicina.
I presepi ci piacciono perché non sono solo arte ma segno di fede, messaggio di amore universale. E invito all’accoglienza.
Per questo non si può non cogliere la contraddizione di volere il presepe, ma non quanto rappresenta. Di accogliere un bambino di plastica, ma non quelli veri che sbarcano o che vivono in un campo in attesa di quel mondo migliore di cui noi già godiamo.
Per questo stride quel sì alla statuina, sbandierato come atto di salvaguardia delle radici e della cultura italiana, ma trasformato in vessillo contro gli stranieri e gli immigrati. Come dire: non siamo disposti a cedere la nostra matrice bimillenaria con quella di chicchessia. Tanto meno con quella degli ultimi arrivati.
Eppure, se in Italia c’è una indiscussa sensibilità all’accoglienza e all’inclusione lo si deve anche ad un sentire che è figlio di quel presepe e, per esteso, di quel crocifisso che è stato il bambino di nome Gesù. Segni di un Dio fatto uomo, nato e morto per noi. Quel crocifisso che con le scuole ha pure qualche difficoltà dato che quel bambino, che taluni ora acclamano in classe, tali altri non accettano, adulto, appeso a una croce con le braccia spalancate e inchiodate. Voluto a Natale, messo nel cassetto a Pasqua. Messo e tolto alla bisogna.
E se oggi lo si invoca non è per fede, che – si dice – è fatto privato. Non è per ideologia – ci si fa scudo. Ma è nel nome di una comune cultura. Lo si vuole slegato dalla dimensione della fede, legato a san Francesco e alla prima rappresentazione della natività che fu in Italia.
Ma Francesco appartiene alla cultura quanto alla fede. Arrivò, sì, al presepe di Greccio ma partì dal crocifisso di san Damiano. E il primo presepe – che abbiamo negli occhi grazie al capolavoro di Giotto – si lega al miracolo che avvenne: comparve il Bambino. Quello vero. Quello di Betlemme. E fu per fede.
(*) direttore “Il Popolo” (Concordia-Pordenone)