Economia

Thyssen, dieci anni dopo. Torino ha ancora il monopolio industriale?

La tragedia Thyssen è una rappresentazione anche simbolica di quel processo di deindustrializzazione che coinvolge Torino e la sua area metropolitana fin dagli anni ’80 al tempo della prima grande crisi Fiat, con l’occupazione di Mirafiori durata 35 giorni e conclusa con la marcia dei 40 mila

Dieci anni dopo la Thyssen, proprio nei giorni dell’anniversario, altri due gravi incidenti sul lavoro hanno portato Torino in cima alle cronache: due ustionati nell’esplosione in una fabbrica chimica, e un altro lavoratore ferito, travolto da un carico di ferro. Quasi a ricordare che la sicurezza nei luoghi e nelle procedure di lavoro è una “conquista” che va confermata e rinnovata ogni giorno, un problema che non si può mai dare per scontato.

 

L’arcivescovo di Torino Cesare Nosiglia, che lungo tutto il suo episcopato nel capoluogo subalpino si è impegnato in prima persona sui problemi del lavoro, ha commentato così per il Sir la serie di incidenti: “A ogni morte sul lavoro si alzano le voci di condanna e riprovazione di fatti così tragici che sono giudicati giustamente inaccettabili dalla gente e da chiunque abbia responsabilità politiche ed economiche. Eppure malgrado ciò gli incidenti mortali sul lavoro continuano a segnare la vita di tante persone, famiglie e comunità per cui le recriminazioni hanno poca efficacia nel cambiare la situazione. Questo significa che i controlli non sono sufficienti, o che la sicurezza del luogo di lavoro sia ritenuta tale da non mettere in conto che possano accadere tali incidenti. Credo comunque che ogni motivazione addotta abbia le sue ragioni, ma non giustifica quanto accade. Anche gli stessi errori umani che possono capitare hanno le loro radici nelle condizioni di vita dei lavoratori, nei ritmi intensi di lavoro e di cura dell’ambiente che di fatto determinano tragiche conseguenze. Non bisogna mai dare niente per scontato: la prevenzione è condizione fondamentale per garantire la sicurezza necessaria di cui c’è bisogno. È infine determinante che

ognuno si assuma fino in fondo le proprie responsabilità, senza scaricare, come avviene spesso, su qualche altro soggetto.

Gli impianti di sicurezza e i controlli sono doverosi: ma rischiano di essere insufficienti se non c’è anche una formazione ed educazione a rispettare le norme, sulla base di una coscienza etica che li sappia sostenere”.

I dieci anni dalla tragedia Thyssen sono una rappresentazione anche simbolica di quel processo di deindustrializzazione che coinvolge Torino e la sua area metropolitana fin dagli anni ’80 al tempo della prima grande crisi Fiat, con l’occupazione di Mirafiori durata 35 giorni e conclusa con la marcia dei 40mila. E non si può dimenticare neppure la successiva crisi, finanziaria più che industriale, che agli inizi del millennio chiuse definitivamente il “ciclo Fiat”, per Torino e per l’Italia: Gianni Agnelli morì nel 2003; il fratello Umberto, che forse avrebbe voluto rilanciare l’impegno dell’azienda in Italia e nel settore automobilistico, morì solo un anno dopo. L’arrivo di Sergio Marchionne ha portato alla scelta obbligata dell’internazionalizzazione, con il conseguente pesante ridimensionamento del ruolo di Torino nel gruppo. Dopo Fiat anche altre grandi presenze in passato radicate in città hanno “passato la mano”: Telecom verso Milano, la Ferrero rientrata ad Alba abbandonando il centro direzionale di Pino, sulla collina torinese. Il sistema bancario ha trovato una soluzione diversa, andando a creare il “polo” di Intesa San Paolo, che rimane gruppo di maggiore peso nel sistema del credito.

Torino ha continuato ad essere “laboratorio”: non più nella sperimentazione della crescita della società industriale quanto nella crisi di quello stesso modello. Una parte importante dell’indotto automobilistico ha trovato le risorse (di inventiva, prima ancora che economiche e finanziarie) per continuare a competere sui mercati internazionali; ma un’altra parte di quel che era “industria” non si è più risollevata, mietendo migliaia di posti di lavoro in tutti i settori e in tutti gli indotti. Si è creata, sì, una rete di piccole e medie imprese nel “terziario avanzato”: ma i numeri non sono più quelli di una volta: e infatti Torino denuncia tassi di disoccupazione, soprattutto giovanile, che sono fra i più alti del Nord Italia, paragonabili solo alle zone depresse del Meridione.

La Chiesa torinese ha impegnato tutte le proprie energie nel lanciare una “alleanza fra generazioni” per individuare, insieme con le istituzioni, un nuovo modello di welfare. La prospettiva, tuttavia, rimane quella di un ridimensionamento del vecchio tessuto produttivo, e un conseguente calo demografico.

Le amministrazioni locali hanno cercato vie di rilancio puntando alla creazione di una “città della conoscenza”, che valorizzi le potenzialità del sistema di istruzione superiore (Università, Politecnico, Scuola d’Amministrazione Aziendale, Istituto del Design, ecc.); e, nello stesso tempo, di sviluppare una “vocazione turistica” che in passato non era mai stata coltivata, pur in presenza di veri “gioielli” come il Museo Egizio o la “corona di delizie”, l’anello di residenze sabaude che da Aglié a Racconigi, da Stupinigi a Rivoli e alla Venaria Reale rappresenta un patrimonio unico in Europa, paragonabile solo ai Castelli della Loira. Soprattutto la trasformazione della Reggia di Venaria in ambiente privilegiato per la cultura “di massa” ha dimostrato le possibilità in questo settore.

Indubbiamente il clima di “monopolio industriale” aveva abituato l’élite torinese a rendite di posizione che oggi non sono più possibili, come dimostra la vicenda del Salone del Libro: nato e cresciuto a Torino, oggi deve confrontarsi, ad armi pari, con altre iniziative come quella milanese…