Il messaggio del presepe

Natale: mons. Pompili dal santuario di Greccio, “tornare alla mangiatoia”

“Tornare alla mangiatoia: così come san Francesco si era concentrato sulla greppia perché intendeva lì cogliere il significato e la verità profonda del Cristianesimo, così anche noi siamo chiamati a tornare alla novità del Cristianesimo dove Dio si rivela in un bambino e nel rifiuto di ogni violenza in nome della pace che il Bambino porta con sé”. Da Greccio, la “nuova Betlemme” di san Francesco, mons. Pompili invita a riscoprire il significato del Natale. Il progetto “La Valle del Primo Presepe” e la voglia di ri-nascita dopo il sisma del 2016

foto SIR/Marco Calvarese

“Tornare alla mangiatoia: così come san Francesco si era concentrato sulla greppia perché intendeva lì cogliere il significato e la verità profonda del Cristianesimo, così anche noi siamo chiamati a tornare alla novità del Cristianesimo dove Dio si rivela in un bambino e nel rifiuto di ogni violenza in nome della pace che il Bambino porta con sé”. La mangiatoia, luogo dell’Incarnazione, simbolo del povero e della povertà inerme: una provocazione per la Chiesa di allora e per quella di oggi. Mons. Domenico Pompili, vescovo di Rieti, richiama così il significato del presepe, alla vigilia del Natale. E lo fa da Greccio, povero villaggio scelto dal Poverello di Assisi, alla fine della sua esistenza – siamo a Natale del 1223 – come una “nuova Betlemme”.

“Nuova Betlemme”. Dal santuario, incluso dall’Unesco tra i siti Patrimonio mondiale dell’umanità, che conserva la Cappella del Presepio, edificata su una grotta nel 1228, anno della canonizzazione del Santo, mons. Pompili sottolinea che “Francesco non fece una rappresentazione teatrale come a volte si è indotti a credere. Tenne la gente povera e semplice del posto, attorno a sé e alla Parola che commentò con grande intensità”. Narra Tommaso da Celano, primo biografo di san Francesco: “Fu talmente commosso nel nominare Gesù Cristo, che le sue labbra tremavano, i suoi occhi piangevano e, per non tradire troppo la sua commozione, ogni volta che doveva nominarlo, lo chiamava il Fanciullo di Betlemme. Con la lingua si lambiva le labbra, gustando anche col palato tutta la dolcezza di quella parola e a guisa di pecora che bela dicendo Betlemme, riempiva la bocca con la voce o meglio con la dolcezza della commozione”. “Fu quello – aggiunge il vescovo di Rieti – il cuore di quella notte che divenne la madre di tutte le rappresentazioni dell’Incarnazione.

Francesco con questo gesto voleva fare due cose: la prima di carattere religioso, ricondurre l’attenzione sulla novità, scandalosa, del Cristianesimo che fa di un bambino la Rivelazione massima di Dio, e la seconda di tipo sociale. Il tempo del Santo di Assisi era quello delle Crociate, di una Chiesa che si mobilitava per la liberazione dei Luoghi Santi. Francesco, facendo di Greccio una nuova Betlemme, intendeva dire, quasi sottotraccia, che non c’era bisogno di questa operazione militare perché Dio si fa uomo in ogni luogo, preferibilmente in quelli più sperduti”.

Un messaggio che, ad avviso di Pompili, “si è indebolito a favore di una narrazione del Natale piegata su esiti dolciastri e sentimentali, facendo smarrire il dato cruciale della fede cristiana. Credo che qui a Greccio si possa tornare alla novità del Cristianesimo dove Dio si rivela in un bambino”.

“La Valle del primo presepe”. È proprio per cercare di tornare all’intuizione originaria di san Francesco che la diocesi di Rieti ha presentato recentemente il progetto de “La Valle del primo presepe” che, tra le varie iniziative, propone un percorso espositivo, tra Greccio e Rieti, di presepi significativi dal punto di vista artistico e installazioni di arte contemporanea. “Un progetto ambizioso – sottolinea mons. Pompili – che non può non riguardare questa terra segnata dal sisma del 2016. È ambizioso per la volontà di voler ritrovare il sapore originario del Natale che san Francesco più di altri ha saputo intuire e cristallizzare attraverso l’invenzione del presepe. È ambizioso soprattutto oggi che ci si lamenta per le devozioni commerciali di questo evento. Per la nostra terra significa anche ritrovare la linfa francescana che è presente in tutta la valle santa”. Presepe come “rinascita, parola che tra le popolazioni terremotate assume un significato importante. Credo che questo impegno intorno alla Valle del primo presepe vuole essere

un atto di speranza

e non di generico ottimismo, fondato sulla fede per la quale le situazioni più difficili sono quelle da cui si può riemergere con rinnovato vigore”. Come insegna il Natale, appunto.

Un insegnamento spiazzante. “Il Natale è dove Dio si fa carne – continua il vescovo – è una forma di grande provocazione per tutta la realtà umana. Esso sta a significare che la fede non è indifferente rispetto alla situazione storica in cui viviamo”.

“Il centro del presepe di Francesco è la mangiatoia”

perché lì il Santo intendeva cogliere il significato e la verità profonda del Cristianesimo.

“Oggi – ricorda il vescovo di Rieti – ci sono tante greppie da tenere presente: la diseguaglianza socio-economica che cresce a dispetto dell’aumento della ricchezza in termini generali, la condizione sociale di tante famiglie che hanno perduto quel collante che le teneva unite e che le faceva grembo della vita di tanti, gli ultimi come i migranti e i rifugiati, le tante situazioni di guerra e di violenza che insanguinano il nostro mondo.

C’è solo l’imbarazzo della scelta per individuare quali sono le situazioni di povertà nelle quali occorre misurarsi per far sì che Gesù possa nuovamente nascere nel nostro mondo”.