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Don Franco “applicherà” la prospettiva del Concilio propriamente nel suo servizio di giornalista, rivoluzionando non i contenuti dell’informazione “ecclesiale”, ma i modi in cui essa si trasmette, e le modalità di relazioni con le persone e le istituzioni
“Un gesto d’amore”. I redattori di “Avvenire”, molti anni fa, si dicevano scherzando che quello era il titolo che poteva andar bene per qualunque articolo del giornale, se veniva a mancare la fantasia o se, nel lavorare il pezzo, si incontrava qualche difficoltà teologica, disciplinare, morale… Guardando al grosso volume su mons. Peradotto appena pubblicato da Effatà non si può non ricordare che una delle fatiche di don Franco nel suo lungo magistero di giornalista e di prete è stata proprio quella di non cadere nello scontato, di non rassegnarsi a raccontare le notizie come se fossero tutte eguali – e tutte “edificanti”.
Don Franco veniva da un clima di Chiesa, da un linguaggio ecclesiale che oggi noi percepiamo come “buio”, pieno di limiti e di paure; ma proprio persone come lui, preti e laici della sua generazione, seppero inventare e guidare, negli anni Sessanta, il tempo del cambiamento.
È il Concilio la stagione che segna don Franco, come prete e come comunicatore. Il Vaticano II è il primo Concilio che si apre all’impatto col mondo dei mass media; la grande conseguenza non è da cercare tanto nel fatto che giornali e tv scoprono che la Chiesa “fa notizia”: ma è piuttosto l’emergere del tema dell’opinione pubblica “nella” Chiesa. Una Chiesa che capovolge il modo in cui guarda a se stessa e al mondo: da “societas perfecta” a “mater et magistra”, a comunità che vuole camminare e condividere le gioie e le speranze di ogni uomo e donna sulla Terra. E quello dell’opinione pubblica – “laica” – è territorio a volte accidentato e lacerante, ma che non si può non percorrere. Don Franco “applicherà” questa prospettiva del Concilio propriamente nel suo servizio di giornalista, rivoluzionando non i contenuti dell’informazione “ecclesiale”, ma i modi in cui essa si trasmette, e le modalità di relazioni con le persone e le istituzioni.
Quando diventa direttore de “La voce del popolo”, alla fine del 1968, si capisce la portata del cambiamento – e il lavoro di don Accornero ben documenta questo passaggio – della “primavera conciliare” nell’informazione della Chiesa torinese. Ma più che il giornale è il “sistema delle relazioni” e della comunicazione della Chiesa con il territorio – istituzioni, partiti, forze sociali, comunità cristiane – che è tutto da inventare.
Il lavoro meno noto (meno “pubblico”) di don Peradotto, dagli anni del card. Pellegrino in poi, consiste anche nella tessitura di queste “reti”, e nello sperimentare su tutti i piani l’impatto dell’opinione pubblica nella vita tanto della Chiesa quanto della città. Oggi si dice, e giustamente, che la rete, i social e quant’altro stanno modificando anche i rapporti di potere proprio perché le opinioni vanno ad incidere sulle decisioni in modalità diverse dal passato. Verissimo: meriterebbe ricordare che la rivoluzione attuale è in continuità con quella di 50 anni fa; e che, nonostante le apparenze, non sta modificando la sostanza dei modi di relazione, anche quando ne accresce la complessità.
Don Franco conobbe e sperimentò per intero questa prima stagione; e spese le sue energie migliori e la sua grande intelligenza nella scommessa quotidiana di conciliare “verità” e “libertà” mantenendo il punto fermo della comunione nella Chiesa e della Chiesa. Fu affiancato in questo lavoro da “giganti” come i salesiani don Francesco Meotto e don Gianni Sangalli, che guidarono la comunicazione della diocesi di Torino negli episcopati degli arcivescovi Ballestrero e Saldarini fino al card. Poletto.
Il libro di Pier Giuseppe Accornero (*) ha un valore assoluto perché raccoglie in modo ordinato la base fondamentale di documentazione sulla figura e la vita di don Franco. Anche l’opzione di lavorare soprattutto sul “pubblicato” (cioè sul mare di ritagli di giornale con articoli, interviste, commenti di e su don Franco) risponde a una scelta di stile non priva di significato: don Peradotto non ha scritto libri (se non un volumetto sulla comunicazione per le Paoline); non ha tenuto corsi accademici o istituzionali (se non alla Firas – la scuola superiore per educatori – sempre sui mass media). Ma chi potrebbe dire che non è stato un “autore” e un “maestro”? Il suo magistero si è esplicato lungo percorsi meno paludati e meno istituzionali: ma ha raggiunto e formato migliaia di persone. Non si pensi solo ai giornalisti, ma al gran numero di gente che, in tutta Italia, è andata ad ascoltarlo e dialogare con lui quando veniva chiamato a parlare sui temi del Concilio e del cammino della Chiesa. Si pensi ai lettori della “Voce”, di “Avvenire”, de “il Nostro Tempo” e di tutte le altre testate che don Franco ha raggiunto in 50 anni di attività giornalistica.
Nella prima stagione della Voce di Peradotto c’era una pagina intera (su 8 complessive) dedicata alle “Idee ed esperienze in dialogo”; quella pagina era a volte occupata da scoraggianti (per la spropositata lunghezza) interventi di riflessione, commento, dibattito. Ma era quello un vero “specchio dei tempi”, una stagione importante della Chiesa torinese che il giornale aveva saputo interpretare e fare propria.
Il volume di don Accornero esce nella collana “Studia Taurinensia”: ed è anche questa una “notizia” rilevante, e positiva. Proprio perché sottolinea come gli “studi” nati e prodotti a Torino non possano e non debbano limitarsi al mondo dei docenti universitari e degli “esperti” a vario titolo, ma siano invece capaci di comprendere e integrare anche esperienze di mondi non lontani e non meno fecondi, che ugualmente “fanno cultura” e formano comportamenti e opinioni. È per altro proprio questa la “cultura” che don Peradotto ha cercato in tutta la vita di interpretare e testimoniare: quella capace di collegare i solidi studi alle esperienze quotidiane delle persone, in un mondo dove i cambiamenti sono sempre più rapidi e sfidanti, per la Chiesa come per le famiglie, le istituzioni, le singole persone. C’era in don Franco un “fiuto” che partiva dall’esperienza quotidiana del giornale ma che non si fermava al puro dato di cronaca: perché una notizia si capisce davvero quando se ne comprende il “senso”, il modo in cui un fatto si inserisce nella storia generale. E per inserire la notizia nella storia bisogna – prima di tutto – conoscerla, la storia… Anche in questa prospettiva il libro di don Accornero è prezioso, per la vasta documentazione giornalistica con cui accompagna i passaggi biografici di don Peradotto nel contesto del loro tempo, dalla Cuorgnè montanara e contadina alla Torino operaia, ai mondi della cultura istituzionale e delle parrocchie.
Alla fine, però, la realtà più vera che ci rimane è quella del sottotitolo del libro (che don Piero avrebbe voluto come titolo principale): “Un cuore grande così”. Il don Franco che abbiamo conosciuto (e sì, amato) era prima di tutto un uomo con un cuore grande così. Sempre pronto ad aiutare, ma di più: capace di intuire i bisogni e le sofferenze delle persone; e capace di portarne il peso anche quando materialmente non poteva fare nulla. Ma questo condividere il giogo riporta appunto al Vangelo, a quella “compassione” che è la carità. Ed è molto più che “un gesto d’amore”.
(*) Pier Giuseppe Accornero, “Franco Peradotto prete giornalista e il suo tempo. Un cuore grande così”; collana Studia Taurinensia, Effatà, Cantalupa 2018, 544 pagine, 28 euro