Dialogo tra le Chiese
Cerimonia a Ginevra per il 70° anniversario del Consiglio mondiale delle Chiese. Era il 23 agosto del 1948 e la sua storia coincide con la nascita e lo sviluppo del movimento ecumenico. Oggi il Wcc conta 349 Chiese membro di tutte le principali tradizioni cristiane, in gran parte protestanti, anglicane e ortodosse. A dare inizio alle celebrazioni, è stato l’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby
“Siamo uno con le nostre differenze e non molti che cercano di essere uno”. Si chiama “ecclesiologia dai confini aperti” ed è la sfida “ecumenica” che le Chiese del terzo millennio si trovano ad affrontare. A delinearla è l’arcivescovo di Canterbury Justin Welby, leader spirituale della Comunione anglicana, che il 16 febbraio ha aperto a Ginevra una serie di incontri e cerimonie promosse dal Consiglio mondiale delle Chiese per celebrare i 70 anni di costituzione (Amsterdam 23 agosto 1948). Un anniversario che offre oggi un’occasione a tutto il movimento ecumenico per ripercorrere insieme i passi compiuti nel passato, fare il punto sui traguardi raggiunti e guardare al futuro per capire come le Chiese, insieme e solo insieme, vogliono porsi di fronte ad un mondo che “grida pace e riconciliazione”.
“Il dialogo teologico ha portato grandi frutti”, ha esordito l’arcivescovo Welby nella sua Lectio al Wcc. Nel corso del ventesimo secolo abbiamo assistito a un importante riavvicinamento teologico e dottrinale tra le Chiese. Sono passati quasi 25 anni, quando per la prima volta l’allora segretario generale del Wcc parlò di “inverno ecumenico”. Ma quell’inverno – ricorda oggi l’arcivescovo Welby – seppe generare frutti importanti, accordi teologici che segnano ancora il passo del cammino delle Chiese verso l’unità. Una ricchezza di risultati ecumenici che spinse il cardinale Walter Kasper a scrivere un libro intitolato ‘Harvesting the Fruits’ (“Raccolta dei frutti”) . “Potrebbe dunque esserci stato un inverno ecumenico”, sintetizza l’arcivescovo anglicano, “ma è stato un inverno in cui è stato raccolto molto frutto”.
Molte, se non tutte, le divisioni nella Chiesa riguardano questioni di principio e di dottrina, questioni di potere e autorità se non addirittura dispute territoriali. Sono questioni in cui spuntano le barriere che delimitano un territorio, definiscono identità: “Tu credi in questo e io credo in questo; tu fai questo e io faccio questo; tu hai torto, io ho ragione”, ha detto Welby. Se da una parte “le frontiere implicano una differenza”, dall’altra – fa notare Welby – “ci dicono che c’è l’altro, l’altra persona, l’altra cultura, l’altra razza, l’altra nazione”. Tutto sta nel capire, dunque, come le Chiese vogliono vivere la “frontiera”, se come spazio chiuso o porta aperta. “I confini aperti – annota Welby – consentono all’altro di essere parte di noi stessi. Permettono il movimento, esibendo non divisione ma diversità. Nella loro apertura, invitano all’incontro”.
L’arcivescovo è consapevole che non è facile oggi l’applicazione di questa “pratica dei confini aperti”, perché “per cinquecento anni ci siamo abituati alle frontiere. Sono diventate parte del paesaggio. Sono normali”. Ma non è così: le chiusure sono piuttosto “un inganno” e “un fallimento”.
Guardando avanti, Welby tratteggia “un ecumenismo dell’azione, teologicamente supportata”. E a questo riguardo, ricorda la Dichiarazione congiunta firmata con Papa Francesco in occasione del cinquantesimo anniversario dell’incontro di Papa Paolo VI e dell’arcivescovo Michael Ramsay. “Con l’azione non intendevamo il vizio protestante di correre continuamente cercando di fare le cose”, spiega Welby.“Significa piuttosto un ecumenismo che si vede nella solidarietà visibile dei cristiani nella causa della missione, nel vivere il Vangelo tra i poveri e per l’evangelizzazione”.
L’ecumenismo dell’azione dice che “di fronte al male, i cristiani si uniscono nell’amore e dimostrano di essere uno”. Lo disse il predicatore della casa pontificia, padre Raniero Cantalamessa, in un sermone pronunciato nel 2015, davanti alla Regina, nell’Abbazia di Westminster. “Quando ci uccidono, non chiedono se siamo cattolici, ortodossi, pentecostali o anglicani. Chiedono se siamo cristiani”.
“Il mondo sta gridando”, incalza Welby. Grande eco ha avuto tra le Chiese cristiane l’appello lanciato anche a loro dal Papa all’Angelus di unirsi il 23 febbraio prossimo per una Giornata di preghiera e digiuno per la pace, in particolare per le popolazioni del Sud Sudan e della Repubblica democratica del Congo. Il pastore Olav Tveit, segretario generale del Wcc, ha inviato a tutte le Chiese membro una lettera per far conoscere l’iniziativa e chiedere adesioni. E le prime a reagire sono state le Chiese anglicane del Sud Sudan. “C’è bisogno di pregare per il Sud Sudan”, scrivono in un messaggio i vescovi anglicani, “specialmente in questo momento in cui i leader del Sud Sudan sono ad Addis Abeba per i colloqui di pace. Preghiamo affinchè Dio Onnipotente possa trasformare i loro cuori e incoraggiarli ad abbondare i progetti di guerra per costruire la pace”.
Nei primi giorni del suo pontificato, Papa Francesco esortò il clero, i pastori, ad avere l’ “odore delle pecore”, ad andare oltre l’ovile (la frontiera) per cercare soprattutto chi è rimasto fuori. “Il compito è grandioso”, conclude Welby. Ma è un imperativo per le Chiese “lavorare insieme per cercare chi si è perso, ovunque esso sia”. Per scoprire che “il gregge è uno solo come uno solo è il Buon Pastore, che prega affinché noi possiamo essere uno”.