Solidarietà

Libano: il “cedro” e l'”ulivo”, due case per le rifugiate e le lavoratrici maltrattate

Il cedro e l’ulivo, alberi legati alla tradizione biblica che oggi danno il nome a due centri, “Cedar” e “Olive safe”, che Caritas Libano ha promosso, con il contributo di Caritas Italiana, per assistere e proteggere rifugiate siriane e ragazze lavoratrici straniere maltrattate, abusate e violentate, in molti casi dagli stessi familiari e datori di lavoro. Il Libano oltre ad accogliere circa 1,5 milioni di rifugiati siriani, conta anche 250mila lavoratrici straniere, spesso sfruttate e maltrattate. Le testimonianze drammatiche di Lina, giovane rifugiata siriana, madre della piccola Jasmine e della camerunese Karine, di soli sedici anni

"Olive safe", centro Caritas Libano per giovani migranti maltrattate

Chissà se gli operatori di Caritas Libano avranno pensato ai passi biblici dove i profeti cantano la forza e la bellezza dell’ulivo e le radici profonde del cedro quando si è trattato di scegliere i nomi delle case dove oggi sono accolte, protette e curate donne rifugiate dalla Siria e ragazze migranti per lavoro provenienti da diversi Paesi africani e asiatici. Tutte accomunate da un medesimo tragico destino: o colpite dalla violenza della guerra, o maltrattate e abusate dai loro stessi datori di lavoro dopo essere venute in Libano, tramite agenzia, in cerca di una occupazione dignitosa.

Le stime parlano di circa 250.000 collaboratrici domestiche migranti in un Paese che conta oggi 6 milioni di abitanti, il 30% dei quali rifugiati dalla Siria.

“Cedar”, cedro, e “Olive safe”, ulivo sicuro, sono, infatti, i nomi significativi di 2 delle 6 case di accoglienza, “shelter” (rifugi) come li chiamano qui, organizzate da Caritas Libano in tutto il territorio nazionale per rispondere a questa emergenza. Qui rifugiate e lavoratrici straniere con l’aiuto di volontari e operatori specializzati trovano accoglienza, protezione e sostegno ai loro diritti.

“Cedar” è stato aperto nel 2007 a Rayfoun, a circa 40 km a nord di Beirut, in una zona montuosa, dentro un antico convento delle Figlie della Carità, con l’aiuto anche di Caritas Italiana.

Il Cedro della casa di accoglienza “Cedar”

Il suo nome lo deve all’enorme cedro che si innalza per circa 25 metri nel giardino della casa e che offre refrigerio l’estate e riparo l’inverno. “Ogni anno da noi passano dalle 500 alle 700 donne” racconta Nancy, la coordinatrice del Centro, al gruppo di membri di Caritas diocesane italiane che in questi giorni hanno visitato il Libano per programmare interventi di solidarietà. “Si tratta di donne maltrattate, picchiate, violentate, molte hanno bambini. La maggioranza, circa l’80%, sono rifugiate e richiedenti asilo, il 20% lavoratrici migranti. Tra loro anche perseguitate politiche e religiose”. Quasi tutte sono indirizzate a Caritas Libano dalle Istituzioni libanesi, dalle rispettive ambasciate e consolati, da altre Ong e dall’agenzia Onu per i rifugiati (Unhcr).

Oggi al “Cedar” ci sono 33 ospiti, tutte donne sole, che vanno dai 2 agli 82 anni e 39 bambini. La loro permanenza al Centro può durare da un minimo di una settimana al massimo di un anno salvo casi particolari. “Al Cedar – aggiunge la coordinatrice – offriamo assistenza umanitaria, sociale, medica, educativa, legale e psicologica, in tre fasi: protezione, integrazione e uscita . I bambini vanno a scuola dalle Suore della Carità.

La palestra del “Cedar”

Tante le attività proposte nel centro: corsi di autodifesa personale, di computer, di cucina e gite culturali”. L’obiettivo finale è, per coloro che decidono di restare in Libano, “un nuovo e più sicuro ricollocamento lavorativo o il rimpatrio volontario”. Obiettivi raggiunti “nell’80% dei casi. Più difficile invece è trovare soluzione per le richiedenti asilo. La situazione in cui versa il Libano che si trova ad accogliere 1,5 milioni di siriani nel suo territorio non è delle migliori e la politica del Governo è quella di favorire il loro rientro. Stesso discorso vale per iracheni, etiopi e sudanesi. Durante la permanenza il “Cedar” diventa la loro casa e le altre ospiti la loro famiglia”.

Lo sa bene Lina, siriana di Tartus, che vive al centro con la figlia Jasmine, di 5 anni. Una storia tragica alle spalle. Allo scoppio della guerra la famiglia la spedisce a Homs dai parenti. Qui, a 16 anni, la danno in sposa ad un uomo con problemi di udito e schizofrenico rivelatosi poi il suo aguzzino:

“Mi picchiava anche durante la gravidanza

– è il suo racconto -. Quando gli scontri giunsero a Homs mi lasciò sola con la bambina per andare con i suoi genitori a Beirut. Solo tempo dopo, riuscii a raggiungerlo qui, in Libano, dove le violenze sono continuate, mi trattava come una schiava pretendendo di avere rapporti anche davanti la bambina minacciando di abusare anche di lei se avessi rifiutato. Un giorno arrivò a picchiarmi con un bastone che poi mi conficcò nella coscia”. La salvezza per Lina e la piccola Jasmine arriva il giorno in cui l’Unhcr la chiama per rinnovare i documenti per la permanenza in Libano. “Ho raccontato tutto agli operatori delle Nazioni Unite che mi hanno indirizzato al ‘Cedar’. Qui – aggiunge tra le lacrime – ho trovato pace e serenità.

Ora sono felice per mia figlia

che può andare a scuola e costruirsi un futuro ricco di speranza. Da parte mia vorrei restare per aiutare coloro che sono nelle mie stesse condizioni e ripagare l’accoglienza che sto ricevendo”.

Karine ha 16 anni e viene dal Camerun. Da qualche mese vive all’“Olive safe”, situato nel quartiere armeno di Beirut chiamato “Geitaoui”. Qui Caritas Libano ospita 40 ragazze dall’Asia e dall’Africa, tutte sfruttate, maltrattate e violentate dai loro datori di lavoro. Anche lei come Lina racconta la sua storia alla delegazione delle Caritas diocesane: “Ero domestica in una casa dove la padrona lavorava nella moda. Mi dava pochissimo cibo e acqua.

Per bere dovevo nascondermi in bagno.

Se qualche mia amica mi regalava da mangiare me lo requisiva. È arrivata persino a bastonarmi. L’ho denunciata alla Polizia ma anche lì sono stata maltrattata e cacciata via. Così mi sono recata al mio Consolato che mi ha indirizzato alla Caritas.

Qui ora mi sento al sicuro”.

Il futuro di Karine è ancora tutto da scrivere, così come quello di tante altre ragazze accolte nei centri. A scriverlo non sono più sole: con loro in Libano ci sono anche la Caritas, con i suoi operatori, volontari e volontarie.