Reportage da Addis Abeba
In Etiopia in questi giorni si vive una situazione di incertezza e sospensione, con lo stato d’emergenza prorogato per altri sei mesi dopo le dimissioni a sorpresa, a metà febbraio, del premier Hailemariam Desalegn. Viaggio tra i cattolici e le organizzazioni umanitarie che lavorano tra poveri e rifugiati.
(da Addis Abeba) Anche se il governo etiopico ha trovato alloggio a 10.000 bambini di strada che vagavano nella capitale, la povertà in Etiopia è tanta e visibile. Tra gli alti e moderni palazzoni del centro che vogliono dare l’idea di una metropoli moderna ed emergente, e molti altri in costruzione tra orribili strade sopraelevate “made in China”, si vede che siamo nell’Africa che ancora arranca, con il fiato corto di chi arriva da fuori e non è ancora abituato all’altitudine di Addis Abeba, 2.200 metri sul livello del mare. Il centro è pieno di baracchette di legno e lamiera, ci sono lunghe code alle fermate degli autobus, buche, polvere, giovani disoccupati che ciondolano senza fare niente, poveri che abitano i marciapiedi e chiedono l’elemosina nonostante il divieto governativo.
Marcato è il contrasto con il lusso sfacciato dei grandi hotel delle catene internazionali che coccolano la cerchia dei pochi ricchi e le migliaia di espatriati delle organizzazioni internazionali: gli alberghi diventano il punto di riferimento in una città senza nomi delle vie.
In tutto il Paese si stimano almeno 175.000 bambini di strada e il tasso di povertà estrema della popolazione è intorno al 30% su 102 milioni di abitanti, di cui 10 milioni hanno urgente bisogno di cibo.
Sono in maggioranza giovani (nel 2050 si arriverà a 250 milioni di persone), e anche se il Pil del Paese si aggira intorno al 6% il tasso di disoccupazione è molto elevato. Ad Addis Abeba vivono ufficialmente 3 milioni di abitanti ma c’è chi dice che sono almeno 10 milioni, comprendendo gli slums periferici che ospitano gli sfollati interni.
La crisi politica e lo stato d’emergenza. In questi giorni si vive una situazione di incertezza e sospensione, con lo stato d’emergenza prorogato per altri sei mesi dopo le dimissioni a sorpresa, a metà febbraio, del premier Hailemariam Desalegn, perché non riusciva a proseguire con le riforme necessarie alla pace e alla democrazia. Da due anni nelle regioni Oromia e Amhara, le popolazioni maggioritarie, la repressione governativa ha causato infatti più di 300 morti. Gli oromo e gli amhara protestano per questioni di confine e differenze socio-economiche, visto che la minoranza tigrina (il 6% della popolazione) gestisce gran parte del potere politico ed economico. Il governo ha liberato centinaia di prigionieri politici ma anziché essere interpretato come gesto di distensione e dialogo è stato preso come segno di debolezza.
Ora si aspetta con apprensione il nuovo governo, con i rischi che comporterà a seconda dell’etnia del premier.
La crisi politica colpisce tutti: internet ogni tanto viene bloccato, si consiglia di non uscire dalla capitale, diventa difficile spostare le derrate alimentari, i prezzi aumentano, sono proibite le manifestazioni. Il Paese è blindato, con militari armati di kalashnikov ovunque.
Il cardinale di Addis Abeba: “Affrontare le questioni etniche”. “Non dobbiamo nascondere i problemi etnici sotto il tappeto ma mettere le questioni sul tavolo ed affrontarle”, afferma a proposito della crisi politica il cardinale Berhaneyesus d. Souraphiel, arcivescovo cattolico di Addis Abeba, che ci riceve nella sede dell’arcivescovado, a fianco della cattedrale St. Mary Covenant e a pochi passi da una moschea. I cattolici in Etiopia sono solo lo 0,7%. Il 46% sono ortodossi etiopi, il 33% musulmani. La città risuona dei canti ortodossi dalla mattina alla sera, che si alternano a quelli dei muezzin. Nelle ore della preghiera musulmana la strada vicina al compound cattolico è bloccata dai tappeti di chi si rivolge alla Mecca.
“La grande sfida – sottolinea il cardinale – è costruire la pace tra i gruppi etnici e lavorare per un unico Paese,
affrontando il problema della disoccupazione che colpisce i giovani, favorendo le piccole imprese, lottando contro il traffico di armi e di esseri umani”.
L’impegno di Caritas Etiopia. L’Etiopia solidale ha diversi volti e si impegna sia per la popolazione locale, sia per gli oltre 900.000 rifugiati accolti generosamente dal Paese: eritrei, sudsudanesi, yemeniti, somali, sfollati interni. Caritas Etiopia, ad esempio, lavora su diversi fronti, tra cui la lotta alla tratta insieme alla task force nazionale. Cerca di prevenire soprattutto lo sfruttamento dei lavoratori domestici, visto che molti etiopi vanno a lavorare nei Paesi arabi, subendo soprusi e vivendo situazioni di grande difficoltà. È degli ultimi tempi la notizia che l’Arabia Saudita ha deciso di rimpatriare 450.000 etiopi, 250.000 sono già tornati. “Insieme ai salesiani organizziamo training formativi e campagne mediatiche per prevenire le migrazioni irregolari – spiega Bekele Moges, direttore esecutivo di Caritas Etiopia -, progetti per creare opportunità lavorative, attività educative nei campi profughi”. Mario Mesay, dell’ufficio immigrazione di Caritas Etiopia, conferma che grazie al loro lavoro di advocacy “sono migliorate negli anni le politiche migratorie: ora i rifugiati possono andare a scuola gratis e non sono forzati a vivere nei campi. L’obiettivo, da raggiungere entro il 2020, è l’abolizione dei campi profughi e l’inclusione”.
Per un anno e mezzo ha vissuto come i poveri di Addis Abeba. Tra le personalità più di spicco sul versante umanitario c’è Yemane Woldemarian Berhe, 53 anni, fondatore dell’associazione El Shadai (“Dio è onnipotente”), ortodosso. Era andato a studiare in Canada con la moglie e un figlio di un mese, poi una grande e sofferta decisione, quasi evangelica: lasciare tutto per vivere
un anno e mezzo tra i poveri di Addis Abeba, chiedendo l’elemosina, per capire cosa significa veramente avere fame, non potersi mai lavare e indossare sempre gli stessi abiti sporchi.
“E’ stato l’unico modo per conoscere fino in fondo la povertà – racconta -. Ho scoperto che i bambini di strada sono poveri ma intelligenti, sono onesti e diretti”. Yemane ha provato a chiedere aiuto al governo una prima volta: “Lasciali stare, non c’è niente da fare”, fu la risposta. Si è rimboccato le maniche da solo, offrendo ai bambini la possibilità di studiare e lavorare. Ha costruito per loro due ostelli nella regione del Tigray, uno a Gambella, uno ad Hafar e uno ad Addis Abeba. A un certo punto il governo si è reso conto che era possibile fare qualcosa e da allora operano in convenzione. In 30 anni El Shadai ha tolto dalla strada almeno 7.000 bambini, altri 25.000 sono stati inseriti in un contesto lavorativo. Anche il figlio, oggi maggiorenne, ha lasciato il Canada per andare ad aiutare i profughi ni campi in Eritrea.
Gandhi charity, l’Ong che aiuta i profughi eritrei. L’associazione El Shadai lavora in stretta collaborazione con Gandhi charity, l’Ong fondata e diretta da Alganesc Fessaha, medico ayurvedico che vive a Milano ed ha ricevuto numerosi riconoscimenti in Italia e all’estero (tra cui l’Ambrogino d’oro nel 2013 e il Premio volontario del Sud Focsiv 2017). Fra pochi giorni andrà in Israele per piantare un albero e ricevere il riconoscimento dei Giusti d’Israele. Alganesh è nata all’Asmara ed è dovuta fuggire dall’Eritrea. Da allora dedica tutta la sua vita ai profughi eritrei, aiutando anche chi cade nelle mani dei trafficanti nel Sinai o nei centri di detenzione in Libia. Gandhi charity è stata fondata nel 2003 ad Abidjan in Costa d’Avorio, ha una sede a Milano e una ad Addis Abeba, con centinaia di volontari, italiani ed eritrei. In questi anni ha aiutato 33.000 ragazzi a laurearsi e realizzato 2.800 adozioni a distanza. È presente anche nei campi profughi in Etiopia, tra cui Mai Ayni, nel Tigray, dove i volontari distribuiscono 850 pasti al giorno.
“Vorremmo che i bambini poveri abbiano la possibilità di studiare e rimanere in Etiopia”, dice Alganesh. In Etiopia ha collaborato in prima persona alla realizzazione dei corridoi umanitari, che hanno portato il 27 febbraio a Roma 113 eritrei, sudsudanesi e somali tra i più vulnerabili, ora accolti in 18 diocesi italiane. Entro fine anno, grazie al protocollo tra la Chiesa e lo Stato italiano, con la Comunità di Sant’Egidio, ne arriveranno in tutto 500, e saranno ospitati in una settantina di Caritas diocesane. Obiettivo: autonomia e integrazione.