Democrazia
“Non credo che dal voto arrivi un no alla pace, almeno non principalmente – dice il segretario generale della Conferenza episcopale colombiana (Cec), mons. Elkin Fernando Álvarez Botero -. Mi pare che da un lato il voto sia stato espresso in generale su diversi modelli di Paese, dall’altro che arrivi la richiesta di un cammino di pace più partecipato, più condiviso”
Diciassette mesi dopo il referendum che aveva pesantemente azzoppato l’accordo di pace con le Farc, pur senza bloccarlo, dal popolo colombiano arriva un’altra bocciatura, anche se parziale e indiretta, del faticoso processo di pacificazione in atto nel Paese. L’occasione è stata quella delle elezioni legislative di domenica scorsa, durante le quali sono stati rinnovati la Camera e il Senato in Colombia, anteprima della battaglia presidenziale del prossimo 27 maggio. A prevalere, pur in uno scenario di grande frammentazione, sono state le forze contrarie o scettiche all’accordo firmato a fine 2016, quello stesso accordo che ha consentito alle Farc di esordire (con risultati irrisori) come partito politico. Gli ex guerriglieri potranno comunque contare su dieci seggi parlamentari pattuiti nell’accordo di pace.
Il primo partito è il Centro democratico dell’ex presidente Álvaro Uribe Vélez, grande avversario degli accordi di pace, che ottiene oltre il 16% dei voti. Con il 12% dei Conservatori e con il 14% di Cambio Radical dell’ex vicepresidente Germán Vargas Lleras (più spostato verso il centro) si verrebbe a creare una “quasi maggioranza” di 50 senatori su 102 e 83 seggi su 166 alla Camera. Solo al 12% il Partito della U: il presidente Juan Manuel Santos, non si può ricandidare e ha la grave colpa di non avere trovato alcun “erede” politico, lasciando in pratica senza leader il suo partito. Liberali, Verdi, forze di sinistra si presentano in ordine sparso.
Non è un no alla pace, ma manca un progetto condiviso. In che modo, dunque, il voto influirà su un cammino di pace reso problematico anche dalla sua lenta applicazione e dai pochi progressi fatti nella trattativa con l’Eln, la guerriglia rimasta ancora attiva? “Personalmente, non credo che dal voto arrivi un no alla pace, almeno non principalmente – dice il segretario generale della Conferenza episcopale colombiana (Cec), mons. Elkin Fernando Álvarez Botero -. Preciso che si tratta di prime impressioni personali, non ancora discusse con l’Episcopato. Mi pare che da un lato il voto sia stato espresso in generale su diversi modelli di Paese, dall’altro che arrivi la richiesta di un cammino di pace più partecipato, più condiviso. Resta inoltre il problema dell’astensione molto alta, circa il 52-53% dei cittadini non ha votato. Tuttavia, la partecipazione è cresciuta rispetto a cinque anni fa. Noi abbiamo insistito molto sulla partecipazione, sul fatto che le comunità si inseriscano nel processo politico”. Il segretario della Cec riflette anche sulla notevole frammentazione: “Sì, c’è molta dispersione di forze. Noi, sulla scia delle parole del Papa, diciamo che serve un progetto comune per il Paese, che dev’essere una casa per tutti. Per questo, però,
serve una leadership politica forte.
Il Paese ha bisogno di un nuovo patto sociale. Certo, in futuro non si potrà non tenere conto che l’accordo di pace è una realtà, ma bisogna operare senza forzature nella società”.
Giustizia o vendetta? Una sfida anche per la Chiesa. Tra chi ha dedicato molti sforzi alla costruzione della pace i sentimenti sono contrastanti. Una di queste persone è senza dubbio Leonel Narváez Gómez, padre della Consolata e presidente della Fondazione per la Riconciliazione, con sede a Bogotá. “La destra ha avuto un’affermazione abbastanza forte e certamente cercherà di rallentare l’implementazione del cammino di pace, ma dal punto di vista giuridico l’accordo è stato blindato della Corte Costituzionale, per tre legislature non si potrà cambiare nulla, neppure Uribe lo può fare”. Resta, però, il tema che divide la società: “Tutto ruota attorno all’idea di giustizia che abbiamo.
In molte persone prevale l’idea di una giustizia punitiva, invece che riparativa.
E stiamo parlando di un popolo cristiano al 99%! Questa è una sfida per la Chiesa, una questione che non può non interpellarci. Così come non può non interpellarci che il vero ostacolo all’applicazione dell’accordo è lo spirito di vendetta”. Per il futuro, padre Narváez non nasconde una speranza: “Tra i motivi del successo della destra c’è la situazione del Venezuela. E’ stata seminata la paura che se prevalesse la sinistra anche la Colombia potrebbe cadere nel cosiddetto castrochavismo. Se le cose cambiano in Venezuela, dove non si può andare avanti così, i colombiani capiranno che quella seminata è una finta paura”.
“Risultato non confortante”. Anche Gianni La Bella, lo storico che per la Comunità di Sant’Egidio ha gestito le varie fasi della trattativa, la situazione del Venezuela è stata decisiva in queste elezioni, così come “ha pesato molto lo stallo nelle trattative con l’Eln, più di quello che si crede. Certo, il risultato non è stato confortante per il futuro del cammino di pace in Colombia. Una vittoria alle presidenziali dell’uribista Iván Duque rischierebbe di far ripartire tutto da capo, siamo in un brutto ginepraio”. Non conforta, in effetti, la situazione in molte zone del Paese e poco ancora si sa sui veri numeri della dissidenza interna alle Farc.
Ora le Presidenziali. Lo sguardo, intanto, è rivolto alle Presidenziali del prossimo 27 maggio. Domenica si sono tenute anche le primarie della destra e della sinistra. Nelle prime ha prevalso nettamente il candidato uribista Iván Duque, nelle seconde l’ex sindaco di Bogotá Gustavo Petro. Si confronteranno con Germán Vargas Lleras, con il liberale Humberto de La Calle, negoziatore dell’accordo con le Farc, e con il verde Sergio Fajardo, ex governatore dell’Antioquia.