Settimana Santa
Le palme e la croce sono la parola discendente di ogni amicizia che sfuma, di ogni amore che non si conserva, di ogni rapporto familiare che si incrina. E noi abbiamo perso il sapere e il sapore dell’aggiustare le cose
Entriamo nella settimana santa. La domenica delle palme ci racconta di una Gerusalemme in festa. Eppure la croce per chi veniva acclamato con palme ed osanna era già tagliata e pronta.
Sembra una storia lontana. E, per l’oggi, una storia riservata a quella percentuale minoritaria di italiani che, domenica 25, saranno in chiesa coi ramoscelli d’olivo.
Non è così. Basta pensare a quante volte abbiamo gioito e acclamato qualcuno. In politica ad esempio. L’osanna a un leader è pronto a farsi critica feroce che conduce al naufragio. È una storia che ha tanti nomi possibili, recenti e no. Oppure nello sport e nel calcio soprattutto: quante volte il campione che sbaglia il rigore è crocifisso al suo errore e non c’è carriera che tenga. Nello spettacolo: la cantante che non azzecca il pezzo si vede seppellita da una etichetta di vecchiezza. Capita a chi scrive un buon libro ed è atteso al varco del secondo, a chi organizza un evento e ogni anno deve superare l’asticella del traguardo precedente, a chi conduce uno spettacolo e si ritrova ogni volta sotto giudizio. O piaci e continui, o non piaci e non ci sei più.
Ma non è riservato ai soli famosi questo percorso che va dalle palme alla croce: coinvolge ciascuno di noi. L’ingresso in Gerusalemme è oltre la soglia di casa, è oltre il portone dell’azienda, nel gruppo che seguo la sera. Basta una frase infelice a creare una incomprensione che non si sana, a trasformare una gioia in pesantezza. E la fine si annuncia.
Le palme e la croce sono la parola discendente di ogni amicizia che sfuma, di ogni amore che non si conserva, di ogni rapporto familiare che si incrina. E noi abbiamo perso il sapere e il sapore dell’aggiustare le cose.
Davvero le palme non sono lontane da nessuno. Nessuno è Gesù, ovviamente, ma siamo tutti giudicati e giudicanti, siamo nella folla che acclama e condanna.
Non ci è distante quell’arena dove gli antichi assistevano ai massacri. Lo si fa oggi in senso figurato, ma lo si fa ancora. Il gusto del commento, del fischio contro, del pollice verso è intrinseco all’uomo: abbiamo solo cambiato luoghi. Dall’arena, al bar, alla tv, ai social. È lì che oggi esaltiamo o condanniamo. Famosi e no. Oggi che facebook è il palco personale che ciascuno si costruisce, ma è anche l’arena aperta ai giudizi e commenti altrui.
Nel passato bastava un pollice verso – dislake ante litteram – a sancire la fine di una persona. Poi si è passati al telecomando: lo share che si inabissa porta il conduttore nelle profondità oscure dell’insuccesso, dove la luce del sole non giunge a scaldare la vita. Sono oscurità e solitudini che tutti rischiamo: in casa, nel lavoro, per un affetto trovato e perso, nell’illusione entusiasta del momento. Ognuno di noi ha steso il suo mantello al passaggio di qualcuno creduto re. Politico, cantante, sportivo, amico o amato che fosse. Qualcuno si è poi ricreduto.
Al pollice e al telecomando si sono aggiunti i social: la nostra arena, l’odierno sfogatoio mediatico. E lì che oggi l’umanità si mostra ancora assetata di sangue. E i cyberbulli non sembrano avere limiti di età dove la tentazione di un osanna e di un crucifige è a portata di un clic.
Sì, le palme, non sono solo un episodio del vangelo che riguardano un uomo chiamato Gesù. E l’uomo è ancora avido di sentenze e condanne.
(*) direttore “Il Popolo” (Concordia-Pordenone)