Oncologia
Per la prima volta a Roma si è deciso di iniziare un percorso di studio per capire le implicazioni della “cattiveria”, un’attitudine che a volte interferisce nel percorso di cura dei malati oncologici e nell’alleanza tra medico, paziente e famiglia. Alla tavola rotonda ha partecipato anche lo psichiatra Vittorino Andreoli. Ecco il suo punto di vista
Può una malattia grave rendere le persone più “cattive”? E quanto la “cattiveria”, del paziente o dei familiari, può influire ed ostacolare i percorsi di cura? “Cattiveria” è un termine scomodo da usare. Per gli studiosi della psiche può non essere corretto perché implica un giudizio. Eppure nella pratica clinica di tutti i giorni medici e paramedici, soprattutto in oncologia, si trovano a doversi rapportare con questo tema ostico. Per la prima volta a Roma si è deciso di iniziare un percorso di studio per capirne le implicazioni.
“La cattiveria rappresenta un disturbo profondo che interferisce nell’alleanza tra medico, paziente e famiglia, elemento chiave nel percorso di cura. Le conseguenze inevitabili sono il distacco del personale sanitario nei confronti di queste persone”, ha spiegato l’oncologo Paolo Marchetti, primario all’ospedale Sant’Andrea di Roma, durante la tavola rotonda “Quando il male rende cattivi. La cattiveria, un ostacolo sconosciuto nei percorsi di cura” organizzata ieri (12 aprile) da Simep e Ne.T.On. La sfida è capire i perché dei comportamenti aggressivi: “A volte la cattiveria è dovuta a inadeguatezza dei medici nell’ascolto o all’incapacità dei familiari di dare un giusto sostegno al malato”, ha riconosciuto Marchetti. O anche a frasi che non dovrebbero essere più pronunciate: “Non c’è più niente da fare”; “Ha 6 mesi di vita”. Secondo Piergiorgio Donatelli, docente di filosofia all’Università La Sapienza, “la cattiveria ci riguarda tutti, ed ha a che fare con la difficoltà di accettare che siamo finiti, mortali”. Spesso “i contesti di cura mettono alla prova la nostra difficoltà di governare la cattiveria – ha osservato -, mentre la malattia richiede l’accettazione grata della nostra finitezza”. All’incontro è intervenuto anche lo psichiatra Vittorino Andreoli, che ha invitato i medici “a parlare sempre di vita e riconsiderare la morte come un mistero”, per evitare che nelle persone scattino meccanismi distruttivi. Lo abbiamo intervistato.
La “cattiveria” attribuita a un malato, a una persona che soffre, è un tema scomodo. Perché?
Faccio fatica a sposare il termine “cattiveria” perché la psichiatria e la psicologia devono cercare di capire, non di giudicare, mentre questo è già un giudizio. Al di là di questo modo di pensare,
bisogna vedere qual è il vissuto del paziente quando viene a sapere che l’unica sua attesa è quella della morte.
È un paziente un po’ particolare perché non spera nella vita, nella guarigione, ma è certo della morte. L’oncologo può dirgli qual è la sua speranza di vita, ma è sempre in attesa della morte. Questo crea un vissuto molto difficile, dato dall’impotenza. C’è anche l’impotenza del proprio medico, che il paziente non può amare perché non risolve la sua malattia. Attraverso lo stato oncologico della malattia bisogna cercare di capire quali sono i vissuti. Credo che all’interno ci siano anche dei bisogni distruttivi: “Io non posso fare niente, non valgo più niente”. Per cui
il senso di impotenza può portare spesso all’aggressività, alla violenza.
Ci può essere anche un punto di partenza caratteriale e comportamentale?
Se ne sa veramente poco. Ho chiesto se ci sono statistiche, se è più frequente nell’uomo o nella donna, se è in rapporto all’attesa di vita. Già questo ci aiuterebbe. È ancora difficile capire ma sicuramente è un tema di grande importanza. Perché se una persona ha fiducia nel proprio medico, delegando il proprio problema, ottiene sicurezza, serenità e speranza. Questi elementi, che sembrano definizioni di tipo filosofico o culturale, oggi hanno invece un significato scientifico.
Perché è stato dimostrato che aver fiducia, così come la gioia, agisce sul sistema immunitario deputato alle difese dell’organismo.
Se noi risolviamo questo problema troviamo un aiuto straordinario alla terapia, che deriva proprio dalla speranza, da una attesa in positivo. Penso che forse facciamo male a parlare solo della morte a questi pazienti. Dovremmo sempre parlare di vita e riconsiderare la morte come un mistero.
Non si può dire ad una persona: “Tra un po’ morirai”, perché crea un pathos drammatico che non aiuta il paziente.
Per chi crede in un trascendente la preghiera è un aiuto in più nella guarigione?
La preghiera è ancora il “farmaco” più efficace e più diffuso. Costa meno e non ha effetti collaterali.
Oggi sappiamo che quello che era un consiglio umano e di buonsenso ha un effetto biologico sul sistema immunitario. Per cui
se uno ha fiducia – una parola che ha la stessa radice di “fede” – può attivare meglio le proprie difese biologiche.
Sarebbero necessari maggiori strumenti psicoterapeutici per affiancare meglio i pazienti?
Assolutamente sì. Anche i biologi più rigidi stanno ammettendo sempre di più che la psicologia, l’analisi della personalità è fondamentale. Non c’è più nessuno ormai che interviene su un paziente senza cercare di capire chi è ma occupandosi solo dell’organo che sta curando. Quel fegato appartiene ad una persona, quindi bisogna curare il fegato tenendo però insieme l’uomo tutto intero, corpo-mente-relazioni sociali e, per chi crede, anche l’anima.
Però negli ospedali italiani non sempre si trova questa attenzione…
Lo so, però l’Italia è un Paese con un livello medio-basso a livello sanitario e punte avanzate. Bisogna cominciare a prendere in considerazione queste eccellenze, altrimenti finiamo per vedere anche tutti i medici depressi, che oggi vengono presi a sberle, sono costretti a doversi difendere dai pazienti. Bisogna cambiare, tornare a dare senso all’uomo tutto intero. Altrimenti in un tempo come il presente, dove tutto deve essere affermazione, successo, il dolore diventa ancora più forte.