Primo maggio
Sebbene il lavoro sia cambiato, esso non ha perduto il suo originario significato. Resta in cima alle preoccupazioni di tutti gli uomini. Ma che succede in una società, come la nostra, “fondata sul lavoro”, se oggi il lavoro diventa sempre più raro?
Non sono pochi coloro che si chiedono se in un’economia in crisi, dove il lavoro diventa sempre più raro, abbia ancora senso celebrare la festa del primo maggio. Una manifestazione che, fin dalle sue origini – fine Ottocento – ha visto celebrare ogni anno le conquiste ottenute dai lavoratori in campo sociale. A partire dal 1955, inoltre, il primo maggio è stato anche l’occasione per dare un senso cristiano alla festa del lavoro. Con l’istituzione, infatti, della festa di “San Giuseppe artigiano”, la Chiesa ha inteso sottolineare il valore umano del lavoro e benedire l’azione delle classi lavoratrici, volta ad ottenere maggiore giustizia e dignità dei lavoratori. E in tale ottica, duole constatare come, nelle varie manifestazioni, si rivendichino soltanto i diritti di coloro (i padri) che sono già tutelati e non venga spesa una parola per i tanti milioni di italiani – la maggior parte costituita dai figli – tenuti fuori dal mercato del lavoro e da ogni forma di tutela.
Un tempo, almeno fino agli anni Ottanta, le famiglie potevano fare un certo affidamento sul lavoro: di solito il lavoro e, nella maggior parte dei casi, lo stesso lavoro, nella stessa ditta, alle dipendenze dello stesso datore di lavoro, accompagnava il lavoratore fino alla pensione che, pur non essendo favolosa, permetteva di vivere senza troppe preoccupazioni. Chi, poi, aveva la fortuna di avere un impiego pubblico, “faceva il signore”.
D’altra parte, negli anni Sessanta, in pieno boom economico, il prodotto interno lordo (Pil) aumentava in ragione del 5% annuo e trovare lavoro non costituiva un problema insormontabile. Con la trasformazione dei sistemi economici, si è passati da una economia industriale, dove il lavoro si svolgeva quasi tutto in fabbrica, ad una economia post-industriale, che ha provocato una profonda trasformazione del lavoro, soprattutto nel settore privato. È diminuito il lavoro non qualificato, a vantaggio di quello specializzato ed i lavoratori sono chiamati a variare spesso tipo di lavoro per via della continua trasformazione delle modalità di produzione dei beni.
Alla fine dell’Ottocento, il 94% dei lavoratori svolgeva mansioni manuali e parcellizzate; oggi, invece, gli operai si sono ridotti a quasi un terzo di tutta la forza lavoro; un altro terzo svolge attività prevalentemente intellettuali (impiegati, casalinghe, segretari); un ultimo terzo svolge attività creative (imprenditori, artisti, scienziati). Sebbene il lavoro sia cambiato, esso non ha perduto il suo originario significato. Resta in cima alle preoccupazioni di tutti gli uomini. Ma che succede in una società, come la nostra, “fondata sul lavoro”, se oggi il lavoro diventa sempre più raro? Dal 2008 – anno cui si fa risalire la crisi – l’economia cresce poco e un gran numero di persone, come si diceva, chiedono lavoro e non lo trovano e sono costrette a vivere nell’insicurezza, con frequenti e lunghi periodi di inattività, senza reddito e senza tutele. Tanto che, molti giovani, per scoraggiamento e per assenza di alternative, rinunciano anche a cercare lavoro. Una situazione di disagio così preoccupante che ha portato i nostri vescovi a richiamare l’attenzione dei responsabili della cosa pubblica sulla priorità del lavoro, quale mezzo per “seminare speranza”. Nel messaggio ai partecipanti alla settimana sociale di Cagliari su “Il lavoro che vogliamo”, Papa Francesco, dopo avere dichiarato che “il lavoro precario è una ferita aperta per molti lavoratori”, ha detto: “Il mio pensiero va anche ai disoccupati che cercano lavoro e non lo trovano, agli scoraggiati che non hanno più la forza di cercarlo, e ai sottoccupati, che lavorano solo qualche ora al mese senza riuscire a superare la soglia di povertà. A loro dico: non perdete la fiducia. Lo dico anche a chi vive nelle aree del Sud d’Italia più in difficoltà. La Chiesa opera per un’economia al servizio della persona, che riduce le disuguaglianze e ha come fine il lavoro per tutti”. Spetta allo Stato fare il resto, ossia “rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3 Costituzione). Ne tengano conto le forze politiche che si propongono a governare il Paese.
(*) direttore “La Vita Diocesana” (Noto)