Papa a S. Giovanni in Laterano
Don Paolo Asolan, docente alla Pontificia Università Lateranense, presenterà stasera a Papa Francesco la sintesi della riflessione della Chiesa di Roma su alcune delle “malattie spirituali” elencate nell’Evangelii gaudium. In attesa del discorso del Papa, lo abbiamo intervistato
La “malattia spirituale” più diffusa nella diocesi di Roma? “Il pessimismo sterile”. Parola di don Paolo Asolan, del Pontificio Istituto pastorale “Redemptor Hominis” (Pontificia Università Lateranense), che questa sera a S. Giovanni in Laterano presenterà a papa Francesco un ritratto della sua diocesi. Secondo l’esperto, bisognerebbe adottare la lente d’ingrandimento inversa: quella che parte dal tanto buono che c’è, per potenziarlo in modo da saper affrontare con audace lungimiranza quello che Francesco definisce “un cambiamento d’epoca”. In attesa del discorso del Papa, l’auspicio, in chiave pastorale, è di far diventare contagiosa quell’esemplarità che da sempre è la caratteristica della “Chiesa madre” di tutta la cristianità, sede della cattedra di Pietro.
Come si caratterizza quest’anno l’appuntamento della “diocesi del Papa” con il suo vescovo?
Ogni anno, da quando è vescovo di Roma, papa Francesco incontra la sua diocesi. Il suo vicario, mons. Angelo De Donatis, in Quaresima ha chiesto a tutte le parrocchie di riflettere, in modo particolare, su alcune delle “malattie spirituali” che il Papa elenca nell’Evangelii gaudium: l’economia dell’esclusione, l’accidia egoista, l’individualismo comodo, la guerra tra noi, il pessimismo sterile, la mondanità spirituale. Il risultato viene oggi consegnato nella mani del Santo Padre, che ci dirà come continuare il cammino. La direzione è quella già indicata nell’Evangelii gaudium, il documento programmatico del pontificato, che chiede un rinnovamento in senso missionario della vita di tutta la comunità ecclesiale: dalle parrocchie, alle diocesi, alla Santa Sede.
La Chiesa di Roma ha iniziato questo cammino di riflessione sull’Evangelii gaudium, che comporta un progetto di svolta in ambito pastorale, per affrontare quello che Francesco definisce un cambiamento d’epoca. Sarà lui, nel suo discorso, a tirare le fila.
Qual è il quadro della diocesi che è emerso dalla riflessione sulle “malattie spirituali”?
Direi che è un quadro di sostanziale inquietudine, di una certa stanchezza che attraversa la pastorale ordinaria. Questo non significa che si siano assopite le energie o sia venuta meno la passione, ma che esiste un disorientamento di fronte ad un contesto sempre più “di frontiera” e complesso, dove anche la strada del ripartire dalla missione ha bisogno di essere ben compresa. Il modello ecclesiale che si è seguito finora ha fatto il suo tempo, messo in crisi dal tempo che non c’è, dall’affievolirsi degli ambiti della vita spirituale, dalla frammentazione dei soggetti – parrocchie, movimenti, associazioni – e da un difetto di comunione all’interno delle stesse parrocchie.
La parrocchia, a Roma, non sostiene né la formazione, né la vita spirituale di preti e laici, né tanto meno la missione. C’è una persistenza della pratica cristiana, ma a cui occorre dare un indirizzo diverso, puntando a quello che il Papa nell’Evangelii gaudium chiama l’alleggerimento delle strutture.
Oggi nella diocesi di Roma c’è un investimento notevole di energie, di capacità intellettuali e di competenze, che però non raggiungono i risultati sperati. Il modello pastorale è ancora pensato per un’epoca di cristianità, mentre occorre uscire dallo stallo cambiando paradigma: manca la capacità di convergere sul dove andare. In altre parole, l’offerta è molto ampia, ma non c’è univocità su quali siano le priorità pastorali. La diocesi, quindi, dovrebbe diventare il soggetto principale in termini progettuali, dando vita ad un progetto pastorale dove ci siano alcuni elementi di cornice che tutti dovrebbero tenere presenti, però con flessibilità e attenzione ai bisogni reali. In questa prospettiva, il momento della verifica è fondamentale.
Di quale malattia soffre di più la Chiesa di Roma?
Il pessimismo sterile. L’insistere sulle difficoltà rende ciechi su quello che di buono c’è nella diocesi, ed è molto: basti pensare al movimento catechistico e all’impegno delle diverse realtà aggregative. Non si riesce ad avere uno sguardo positivo. In diocesi c’è tutto, forse troppo: la difficoltà è far sì che tutti convergano sulle stesse priorità. L’ottica costruttiva, invece, porta a
valorizzare le cose positive e ad abbandonare le cose che hanno fatto il loro tempo: non bisogna partire da zero, ma potenziare ciò che funziona.
Aprendo, nell’anno del Giubileo, la porta Santa all’Ostello della Caritas papa Francesco ha esortato i romani a chiedere la grazia di sentirsi “scartati”. È da qui che bisogna ripartire?
Nel discorso tenuto prima dell’inaugurazione del Concilio, l’11 settembre 1962, Giovanni XXIII indicava due fronti di impegno per la comunità ecclesiale: la vitalità “ad intra” e la vitalità “ad extra”. A distanza di oltre 50 anni possiamo dire che si è dato molto impulso alla vitalità “ad intra”, mentre l’impulso alla vitalità “ad extra” è rimasto occasionale. Oggi occorre pensare alla vitalità “ad intra” della Chiesa partendo proprio dalla sua vitalità “ad extra”: è quella “conversione pastorale” che la Chiesa italiana auspicava già nel Convegno ecclesiale nazionale di Palermo nel 1995.
Il fatto che la “diocesi del Papa”, in maniera originale, abbia dato il via a questa riflessione, che trae nuovo impulso dall’esortazione apostolica di papa Francesco, ha i caratteri dell’esemplarità:
contagia anche le altre Chiese a ripensare in chiave missionaria non solo il modo in cui fino ad oggi si è concepita la parrocchia, ma anche la formazione dei preti, dei laici, dei catechisti.