A 40 anni dalla legge Basaglia
A 40 anni dalla legge che ha chiuso i manicomi, il padre generale della Piccola Opera della Divina Provvidenza e superiore generale del Cottolengo delinea lo scenario dell’assistenza psichiatrica nel nostro Paese
Secondo l’ultimo Rapporto sulla salute mentale del ministero della Salute, sono poco più di 800mila le persone assistite nel 2016 dai servizi specialistici sul territorio: 1.460 Dipartimenti di salute mentale (Dsm), 2.282 strutture residenziali e 898 strutture semiresidenziali – tra queste 160 Rsa di matrice cattolica – ma il trend è destinato ad aumentare perché si assiste ad un progressivo incremento delle patologie psichiatriche, anche in età adolescenziale e infantile, tanto che per l’Oms nei prossimi anni saranno la prima causa di disabilità. Circa 31mila gli operatori (psichiatri, psicologi, psicoterapisti, infermieri) impegnati nei Dsm, un numero al di sotto dello standard di 1/1500 abitanti indicato dal Progetto obiettivo salute mentale 1998-2000, secondo il quale dovrebbero essere almeno 40mila. Sono 30 le Rems – residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza che hanno sostituito i sei ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) chiusi entro il 2017 – con 596 ricoverati. Non solo il personale: insufficienti sono anche i fondi – 3.6 milioni di euro – destinati all’area della salute mentale che continua a rimanere ai margini rispetto ad altre branche della medicina. Questi alcuni numeri del “pianeta psichiatria” a 40 anni dalla legge Basaglia che il 13 maggio 1978 ha sancito la chiusura dei manicomi restituendo dignità ai malati e ha indicato nei servizi territoriali i luoghi di cura demandandone l’organizzazione alle Regioni. Un panorama nazionale che però si presenta a macchia di leopardo con profonde differenze territoriali. Intanto la Società italiana di psichiatria ha lanciato nei giorni scorsi un allarme: “In assenza di risorse adeguate, il sistema dell’assistenza psichiatrica rischia il crollo”.
A margine del XX convegno nazionale Cei “Uno sguardo che cambia la realtà. La pastorale della salute tra visione e concretezza” (Roma 14 – 16 maggio) abbiamo chiesto a p. Carmine Arice, padre generale della Piccola Casa della Divina Provvidenza e relatore all’evento, di fare il punto della situazione. Nel 2014 il religioso, allora direttore dell’Ufficio nazionale Cei per la pastorale della salute, ha voluto istituire un Tavolo nazionale per la salute mentale di cui oggi fanno parte, oltre allo stesso Arice e all’attuale direttore dell’Uffico Cei, don Massimo Angelelli, quattordici autorevoli professionisti del settore.
“Quarant’anni tra luci e ombre – esordisce -. Aspetti positivi ce ne sono, a partire dalla chiusura dei manicomi nei quali le persone erano trattate in modo disumano, ma non mancano elementi problematici acuitisi negli ultimi tempi, tra i quali la scarsità e la disomogeneità dei servizi specialistici sul territorio”. La chiusura dei manicomi, prosegue, si è accompagnata con “il cambiamento culturale nell’opinione pubblica che ha iniziato a considerare la malattia mentale una patologia mentre in precedenza si riteneva per lo più legata a cause ambientali e sociali”. Superato solo in parte, invece, lo stigma che tuttora isola le famiglie che hanno un malato in casa e “fa vivere loro una sorta di vergogna, riflesso del grado di immaturità della società”.
Positiva la chiusura degli Opg, “anche se alcuni si sono limitati a cambiare la targa esterna ma non la situazione al loro interno e devono percorrere molta strada per diventare Rems a tuti gli effetti”. A preoccupare p. Arice è la situazione delle famiglie con questi pazienti “abbandonate a se stesse mentre le risorse economiche investite dallo Stato non sono proporzionate ai bisogni”. Ma anche
“la mancanza di consapevolezza che siamo di fronte ad un’esplosione della patologia psichiatrica
– nelle sue diverse forme – legata non solo a cause genetiche bensì anche alla frustrazione del sentirsi inadeguati in una società che spinge a correre e chiede efficienza e prestazioni ad alto rendimento mentre alimenta un’esasperata cultura dell’immagine, oppure a nuove dipendenze”. Questo fenomeno “dovrebbe interrogarci:
che cultura stiamo costruendo? che visione di uomo stiamo affermando?”.
Sull’inadeguatezza delle risorse economiche p. Arice ricorda il tentativo, in passato, “di trasferire la competenza delle patologie psichiatriche dal campo sanitario a quello socio-assistenziale perché gli investimenti destinati a quest’ultimo ambito sono nettamente inferiori rispetto a quelli dedicati alla sanità”. Iniziativa fortunatamente naufragata ma “che dice come l’attenzione venga data più ai bilanci che alle persone; più ai risparmi che ai bisogni reali di chi soffre”. Il sacerdote richiama il Tavolo nazionale:
“Dovremmo capire come sensibilizzare le comunità cristiane perché dobbiamo sì denunciare, ma anche produrre risposte concrete, pur se piccole”.
P. Arice pensa ad esempio a “piccole comunità residenziali di sostegno alla famiglia, frutto di una comunità cristiana che si organizza. Un’idea potrebbe essere un centro diurno per bambini con ferite psichiatriche: sarebbe un bel sollievo per i genitori”.
Più in generale le parrocchie “dovrebbero attrezzarsi per avere dei centri di ascolto dove accogliere le famiglie che non sanno a chi bussare e indirizzarle dove possano almeno iniziare un percorso per gestire il problema. Chi accompagna le famiglie in questo dramma?”. Forte la preoccupazione per l’aumento delle patologie in età pediatrica: “Più del 10% degli adolescenti dà segni di sofferenza mentale” ma i posti letto dedicati alle patologie più gravi sono solo 325 su tutto il territorio nazionale. Per il sacerdote
“non siamo pronti a fronteggiare questo problema enorme, si sta sottovalutando la questione”.
E sull’accesso ai farmaci di nuova generazione, garantito non in tutte le regioni, conclude: “Un tempo abbiamo sprecato risorse e ora ne paghiamo il prezzo sulla pelle dei più deboli. Dobbiamo educarci a usare bene, e con giustizia, le poche risorse di cui disponiamo”.