Testimonianza
“Una bomba pronta ad esplodere”: è questa l’immagine che suor Bridget Tighe, da gennaio direttrice generale di Caritas Jerusalem, usa per descrivere al Sir la situazione a Gaza dopo le forti proteste delle settimane scorse, culminate nei violenti scontri del 14 maggio al confine con Israele, che hanno provocato decine di morti e migliaia di feriti. Nell’intervista al Sir la religiosa ribadisce anche la necessità di allentare il blocco israeliano per dare respiro alla popolazione che vive in condizioni drammatiche.
“Una bomba pronta ad esplodere”:
è questa l’immagine che suor Bridget Tighe, da gennaio direttrice generale di Caritas Jerusalem, usa per descrivere al Sir la situazione a Gaza dove ha vissuto e operato per ben cinque anni. Dopo le forti proteste delle settimane scorse, culminate nei violenti scontri del 14 maggio al confine con Israele, che hanno provocato decine di morti e migliaia di feriti, questi nella Striscia sono i giorni del lutto.
“Le persone – racconta al Sir la religiosa – sono sotto shock per ciò che è accaduto. Sono i giorni del dolore, dello scambio di condoglianze, della visita ai familiari delle vittime. È vero, i palestinesi hanno tirato sassi, molotov, ma la risposta di uno degli eserciti più forti, addestrati ed equipaggiati al mondo è stata totalmente sproporzionata”.
E sulla effettiva violazione del diritto internazionale da parte di Israele il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite (Hrc), alcuni giorni fa ha autorizzato a larga maggioranza una commissione d’inchiesta. Risoluzione respinta con fermezza da Israele e, tra i 47 Paesi membri del Consiglio, da Australia e Usa. “La situazione adesso sembra essere più tranquilla” e, secondo quanto riferito dallo staff di Caritas Jerusalem presente nella Striscia, “non si registrano particolari manifestazioni o tensioni al confine”. Ma non si può certo parlare di quiete dopo la tempesta. Anzi…
Vivere a Gaza oggi. “Delle migliaia di feriti negli scontri – dichiara suor Tighe – moltissimi sono giovani, tanti hanno perso gli arti, condannati a una disabilità a vita. Il sistema sanitario di Gaza è privo di mezzi anche a causa del blocco imposto 11 anni fa da Israele. Le medicine sono insufficienti, mancano bendaggi, anestetici. La situazione negli ospedali pubblici è al collasso e moltissimi pazienti vengono rispediti a casa prima del tempo. Come Caritas siamo operativi con le nostre cliniche mobili che offrono un primo intervento ma senza poter garantire le cure di un ospedale. Non siamo attrezzati a curare feriti gravi. Stiamo chiedendo a Caritas Internationalis maggiori aiuti sanitari”. Caritas Jerusalem è presente a Gaza dal 2004 con diversi team mobili che lavorano lungo tutta la Striscia, occupandosi di bambini malati, donne incinte o anziani e offrendo anche supporto psico-sociale e attività per bambini traumatizzati dalla guerra. Il sistema sanitario è quello messo più a dura prova dalle proteste, ma i problemi di Gaza sono anche altri. E suor Tighe li elenca quasi in ordine sparso: “Dopo le ultime tre guerre, ravvicinate (2009, 2012 e 2014), la ricostruzione delle abitazioni e delle infrastrutture prosegue a rilento. Alcune famiglie sono rientrate in case parzialmente rifatte, altre attendono i lavori. L’energia elettrica viene erogata solo per 3 o 4 ore al giorno, insufficienti per far funzionare condizionatori e frigoriferi. La maggior parte dell’acqua disponibile non è potabile. Ora che si va verso l’estate le condizioni di vita peggioreranno ulteriormente, anche dal punto di vista igienico-sanitario. E mi riferisco soprattutto ai bambini, agli anziani, ai disabili, ai malati, ai più deboli. Le strade sono inondate da immondizia con evidenti ripercussioni sulla salute pubblica. Il sistema fognario è pressoché inesistente e i liquami sversano in mare. Manca il lavoro e la disoccupazione è altissima”.
“Cosa sarà di Gaza?” La Striscia oggi conta 2 milioni di persone su appena 360 chilometri quadrati con una densità di popolazione tra le più alte al mondo. E il numero dei suoi abitanti è in costante crescita. Inevitabile allora la domanda: “Se non cambiano le condizioni, cosa sarà di Gaza?”. “La cosa da fare adesso – risponde suor Bridget – è
porre fine al blocco israeliano, aprire i valichi così che le persone possano uscire per curarsi e per lavorare.
Perché questo è ciò che desidera la stragrande maggioranza della popolazione di Gaza. Questo è possibile perché Israele è assolutamente in grado di controllare e verificare ogni flusso. Come Caritas – ribadisce la direttrice – siamo contro la violenza da qualsiasi parte essa venga. La violenza non può essere la soluzione. Anche il blocco è una forma di violenza. Per questo crediamo che aprire i valichi, rimuovere il blocco potrebbe favorire un miglioramento delle condizioni di vita di Gaza e allentare la tensione palpabile”.
Ma non dipende solo da Israele. “I gazawi – afferma la direttrice di Caritas Jerusalem – sono in mezzo a due conflitti: Hamas contro Israele da un lato e Hamas contro Fatah, dall’altro. Non hanno nessuna speranza di futuro, non credono più nella riconciliazione interpalestinese.
I più giovani crescono covando rabbia. Hanno visto solo guerre e scontri,
costretti a vivere in condizioni impossibili, senza mai poter uscire oltre il muro che li imprigiona, incapaci di socializzare con il resto del mondo. E così disperati protestano al confine, quasi suicidandosi”. I dubbi della religiosa riguardano anche le intenzioni degli alleati storici dello Stato ebraico, gli Usa, e della comunità internazionale. “Cosa intendono fare per Gaza? Che altro deve accadere perché si faccia qualcosa almeno per migliorare la vita dei suoi abitanti?”.
“La sfida vera è dare un futuro a questo popolo
perché – sottolinea – la paura più grande è quella di nuova guerra”. Paura che aleggia forte soprattutto tra i circa 1000 fedeli della minoranza cristiana della Striscia.
Una comunità vulnerabile ma resiliente. “La comunità cristiana di Gaza – conclude suor Tighe – soffre come tutta la popolazione gazawa. Non sono perseguitati, molti cristiani lavorano all’interno di strutture pubbliche. Ma come tutte le minoranze sono molto vulnerabili. Tuttavia hanno un’estrema resilienza, come dimostrano i diversi progetti portati avanti al servizio della comunità”. Ma il rischio è l’estinzione:
“La preoccupazione del parroco latino, padre Mario Da Silva, infatti, è l’esodo dei fedeli. Essi quando hanno l’opportunità di uscire dalla Striscia, sotto Natale e Pasqua, difficilmente vi fanno ritorno, preferendo restare in Cisgiordania, anche se illegalmente.
Ci sono ragazze cristiane che, attraverso i social, cercano di conoscere dei coetanei a Betlemme, a Ramallah, così da iniziare una relazione ed eventualmente sposarsi, cosa che a Gaza è molto difficile per la scarsa possibilità di conoscere altri ragazzi cristiani”.