A 40 anni dalla legge Basaglia

Salute mentale. Nicolò (psichiatra): “Più servizi territoriali e più risorse umane. Altrimenti la rivoluzione rimarrà incompiuta”

Superare il modello dell’assistenza residenziale potenziando la rete dei servizi territoriali per assicurare cure a domicilio. Interventi efficaci sono diagnosi precoce, trattamento, inserimento lavorativo. La psichiatria è fatta anzitutto di risorse umane. Se il loro numero non è adeguato è destinata a rimanere monca. Non usa giri di parole lo psichiatra Giuseppe Nicolò. A 40 anni dalla legge che ha rivoluzionato i modelli di assistenza di questi malati lo abbiamo intervistato.

La legge Basaglia “ha restituito dignità ai trattamenti psichiatrici portando i problemi della salute mentale all’interno del sistema sanitario nazionale. Prima i manicomi erano gestiti dalle province; con la Basaglia si è introdotto un modello di assistenza nazionale indicando nei servizi territoriali i luoghi di cura e demandandone l’organizzazione alle Regioni. I pazienti psichiatrici sono così entrati nel Ssn a pieno titolo, non più come malati di serie B. Tuttavia l’applicazione della legge, soprattutto nei primi anni in assenza di servizi, ha aumentato in modo drammatico il carico delle famiglie, e ad oggi la rete di questi servizi non è omogenea sul territorio”. Ad affermarlo è Giuseppe Nicolò, responsabile Dipartimento salute mentale Asl Roma 5 e membro del Tavolo sulla salute mentale istituito presso l’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Cei.

Che cosa intende dire?
“Il numero di posti letto presso le comunità terapeutiche è molto alto in Lazio, Campania e Calabria e molto meno in Emilia-Romagna, ma il futuro dell’assistenza psichiatrica non può essere la cura in strutture più piccole, che configurano comunque una forma di residenzialità, ma piuttosto la possibilità di assistere i pazienti anche con trattamenti di lungo periodo presso il loro domicilio Oggi, invece, troppe persone dimesse dalle strutture psichiatriche ospedaliere rimangono per molti anni all’interno di comunità terapeutiche, modello da superare.

Quali sono i numeri?
Nel 2016 sono state quasi 109 mila le dimissioni dai reparti psichiatrici ospedalieri – fra trattamenti sanitari obbligatori e ricoveri volontari – un totale di 1.382 mila giornate di degenza. L’assistenza ospedaliera garantisce una degenza media di 12.7 giorni; i reparti di psichiatria gestiscono quindi l’acuzie, non la complessità e il lungo periodo del trattamento, eppure molte patologie psichiatriche gravi necessitano di livelli di assistenza, non sempre della stessa intensità, ma per tutta la vita. Ecco perché molti pazienti vanno in strutture comunitarie umanizzanti (massimo 20 posti letto), finalizzate ad una fase di stabilizzazione. Invece molti vi rimangono anche 10 – 12 anni, così questa nuova forma di residenzialità psichiatrica impedisce di restituirli al loro ambiente domestico.

Secondo l’ultimo Rapporto sulla salute mentale del ministero della Salute, sono poco più di 800mila i soggetti assistiti nel 2016 dai servizi specialistici sul territorio. Tra questi 245 mila affetti da schizofrenia e abbandonati per lo più alle loro famiglie che se fanno carico con molta fatica. Come sollevarle da questo peso?
Potenziando la rete dei servizi territoriali. Solo così potrebbe essere garantita a chi ha avuto un esordio di malattia psichiatrica grave un’adeguata assistenza domiciliare. Gli interventi efficaci sono

diagnosi precoce; trattamento farmacologico, psicoterapico e psicosociale; inserimento lavorativo immediato.

Questo però non accade. Perché?
In Italia circa il 65% della spesa per la salute mentale è ancora investito nelle strutture residenziali, il 9% destinato alla spesa farmacologica. Il resto è dedicato al personale dei servizi territoriali, circa 31 mila soggetti mentre ne sarebbero necessari almeno 40 mila. A costare di più è l’assistenza residenziale, 26.117 posti, tutti coperti. La questione è scegliere se continuare a finanziare queste strutture oppure potenziare l’assistenza territoriale che costerebbe meno.

Ma se costa meno perché non si investe su quest’ultima?
E’ una domanda alla quale non so rispondere. Alcune regioni virtuose ci sono riuscite. L’Emilia – Romagna ha costituito una rete territoriale di servizi investendo sull’assistenza costante dei pazienti con strumenti basati sulle evidenze e con trattamenti efficaci e di lunga durata. Raccomandazioni emanate nel 2013 dalla Conferenza Stato Regioni – raccomandazioni non linee guida – indicano come i pazienti dovrebbero essere trattati, ma nella maggior parte dei casi non ricevono il trattamento consigliato.

Appaiono periodicamente iniziative/petizioni per abolire il Tso. Che ne pensa?
Il Tso è uno degli strumenti a nostra disposizione per trattare persone che ne hanno necessità ma lo rifiutano ed è anche un modo di costruire un rapporto con i pazienti. Metterlo in discussione significa vivere in un nirvana. Chi vive sul territorio sa quanti sacrifici fanno gli psichiatri e quanti rischi a volte corrono per cercare di assicurare il miglior trattamento possibile a pazienti che lo respingono. Facendo un adeguato lavoro, i ricoverati in Tso mantengono di solito un’ottima relazione sia con l’ospedale sia con il medico curante sul territorio.

Il processo di chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) ha portato all’istituzione di una trentina di Rems (residenze per l’applicazione delle misure di sicurezza) che ad oggi hanno quasi 600 ricoverati. Lei ne dirige due a Palombara e una a Subiaco. Quale la sua esperienza?
A fronte di 600 ricoverati vi sono 450 persone in lista d’attesa, in carcere o per strada o a casa perché il numero di posti letto è sotto dimensionato. Si sperava – con un approccio più ideologico che scientifico – che disponendo di strutture più umanizzate scomparissero le esigenze cautelari da parte della magistratura, e soprattutto si immaginava ingenuamente che con un brevissimo periodo si potesse assistere il paziente presso il proprio territorio. A volte non riusciamo a gestire presso il territorio pazienti con patologia normale, figuriamoci quelli che hanno un disturbo e hanno commesso un reato. Per essere efficaci i tempi di permanenza non sono inferiori ai tre anni; comprimerli potrebbe ridurre l’efficacia dei trattamenti. Nella nostra Asl, la Roma 5, abbiamo costituito, primi in Italia, un tavolo tecnico interistituzionale in cui gli ospiti delle nostre Rems, la Procura, il Tribunale di sorveglianza, il Garante dei detenuti e il Garante della libertà personale possono dialogare e trovare soluzioni comuni.

C’è ancora uno stigma sociale nei confronti dei malati psichiatrici?
A differenza di altri pazienti, verso i nostri permangono diffidenza e pregiudizi, ma meno che in passato. Devo dirle però che le popolazioni intorno alle nostre Rems sono estremamente accoglienti con i nostri 60 “ospiti”. Sono stato sorpreso dall’attenzione che hanno ricevuto.

Sono stati preparati o è stato un fatto spontaneo?
Un po’ l’uno e un po’ l’altro. Devo però riconoscere che i nostri pazienti si comportano molto bene.

Qual è il suo auspicio per il futuro?
La psichiatria non è fatta di macchinari e nuove tecnologie, bensì di risorse umane. La legge Basaglia è stata una rivoluzione, ma se la psichiatria non viene “fornita” di personale umano che eroghi trattamenti basati sulla relazione, soprattutto sulla presenza di persone, rimarrà una psichiatria monca.