Cinema
Il Sir con la Commissione nazionale valutazione film della Cei prova a rileggere la figura del celebre regista scandinavo e la sua eredità per la cultura odierna, alla luce di tre film, appartenenti a tre differenti decenni: “Il settimo sigillo” (1957), “Luci d’inverno” (1963) e “Scene da un matrimonio” (1973)
Era nato il 14 luglio 1918 a Uppsala, in Svezia, il regista, sceneggiatore e drammaturgo Ingmar Bergman, importante autore cinematografico del Novecento, scomparso nel 2007. Tanti i capolavori in una filmografia complessa e articolata, segnata soprattutto dal senso dell’inquietudine e della ricerca. Una ricerca formale, estetica, ma anche narrativa, tesa a esplorare le pieghe problematiche dell’esistenza dell’uomo, in particolare il senso del legame affettivo, della morte, della fede e dell’esistenza silenziosa di Dio.
Nel cinema Bergman ha esordito nell’immediato Secondo dopoguerra, nel 1946, con “Crisi”. In appena un decennio di attività si fa conoscere in ambito internazionale, rifuggendo facili identificazioni in movimenti e correnti. In lui c’è traccia di realismo, di quella ricerca di novità espressiva che segna il cinema degli anni Sessanta, così come di quello sguardo spirituale. Inoltre, non si può trascurare la matrice culturale nordica di appartenenza, quello sfondo socio-culturale e religioso tipico dei Paesi scandinavi.
Proprio il senso di incertezza e smarrimento lo spingono a mettere in immagine il desiderio dell’uomo di cogliere le tracce di Dio nella vita, sfidandolo a infrangere l’insopportabile silenzio e distanza dall’uomo, lasciato solo con se stesso. Visioni che oscillano tra sguardi di senso e sbandimenti narrativi, che conducono alla disperazione.
Il Sir con la Commissione nazionale valutazione film della Cei prova a rileggere la figura del celebre regista scandinavo e la sua eredità per la cultura odierna, alla luce di tre film, appartenenti a tre differenti decenni: “Il settimo sigillo” (1957), “Luci d’inverno” (1963) e “Scene da un matrimonio” (1973).
“Il settimo sigillo” e quella partita a scacchi con la Morte
Tra i titoli più noti degli anni Cinquanta e della produzione in generale c’è certamente “Il settimo sigillo” (1957) – al pari de “Il posto delle fragole” (1957), Orso d’oro al Festival di Berlino –, film vincitore del Premio speciale della giuria al Festival di Cannes dello stesso anno che prende le mosse dall’opera teatrale del regista “Pittura su legno”. Un’opera complessa e stratificata, da cui si possono rintracciare molte linee narrative e interpretative.
“Il settimo sigillo” rimane indubbiamente celebre per l’incontro-sfida con la Morte del cavaliere Antonius Block – un eccellente Max von Sydow, attore simbolo di Bergman, quasi suo alter ego –, che mette in campo una sfida a scacchi a più riprese con la personificazione della Morte, con la quale si intrattiene anche in riflessioni esistenziali e sulla presenza-assenza di Dio. In un passaggio del film, quando il protagonista Antonius è in una chiesa, Bergman gli affida tutte le sue inquietudini, emblema dell’insicurezza umana: “Perché non è possibile cogliere Dio con i propri sensi? Per quale ragione si nasconde tra mille e mille promesse e preghiere sussurrate e incomprensibili miracoli? (…) Perché continua a vivere in me (…) anche se io lo maledico e voglio strapparlo dal mio cuore? E perché nonostante tutto Egli continua a essere uno struggente richiamo di cui io non riesco a liberarmi?”.
Al momento della sua uscita in Italia, il film viene accolto in maniera positiva ma prudente dalla Chiesa cattolica. La Commissione nazionale valutazione film, mettendo in evidenza la qualità artistica della realizzazione, faceva notare: “La figura del protagonista, che prima di arrendersi alla morte vuole dare alla vita un nobile contenuto, è di per se stessa positiva. Emergono però dal racconto concetti ispirati a dottrine incompatibili con i principi del cattolicesimo. La visione è ammessa soltanto per adulti di piena maturità e culturalmente preparati” (“Segnalazioni cinematografiche”, Vol. 47, 1960, p. 54).
“Luci d’inverno” e quel grido al Dio silenzioso
Con “Luci d’inverno” (1963) passiamo al decennio successivo, gli anni Sessanta, dove Bergman affronta l’ingombrante tema del silenzio di Dio con una trilogia, composta anche da “Come in uno specchio” (1962) e “Il silenzio” (1963). In generale, “il silenzio di Dio – sottolinea Dario E. Viganò – non solo non offre certezze ai personaggi bergmaniani, ma neanche offre cenni di conforto per chi non li sa intendere. Dal punto di vista strettamente artistico, Bergman è abilissimo nel giocare simbolicamente con i segni del divino e nel renderli strumenti narrativi, come chiavi interpretative dell’intera vicenda” (cfr. D.E. Viganò, D. Cornati, “Il fuoco e la brezza del vento. Cinema e preghiera”, San Paolo 2015).
In “Luci d’inverno” troviamo il protagonista Tomas, un pastore protestante, che attraversa una gravissima crisi spirituale innescata dalla morte della moglie. Un film intenso e potente, che mette sempre al centro domande implacabili, che sembrano uscire dal cuore del regista stesso, come quelle di Antonius Block.
Un’opera che rispetto alla successiva, “Silenzio” – altamente problematica e accolta in modo critico –, viene vista con interesse e partecipazione dalla Chiesa cattolica italiana. Nella valutazione pastorale della Cnvf si legge infatti: “Il coraggio di presentare sullo schermo un personaggio tormentato dal ‘silenzio di Dio’ nonché il problema della fede, sia pure al di fuori di schemi rigorosamente cattolici, ha un valore decisamente positivo” (“Segnalazioni cinematografiche”, Vol. 54, 1963, p. 34).
La sperimentazione in tv con “Scene da un matrimonio”
Negli anni Settanta e nei successivi decenni Ingmar Bergman inizia a congedarsi dal grande schermo – il suo ultimo capolavoro cinematografico sarà “Fanny e Alexander” (1982), vincitore di ben quattro Premi Oscar – per aprirsi a una collaborazione sperimentale con la televisione. Tra i tanti titoli è da sottolineare di certo “Scene da un matrimonio” (1973), il racconto in sei puntate della vita di una coppia, Marianne e Johan (sono Liv Ullmann e Erland Josephson, due attori ricorrenti nel cinema di Bergman), dell’implodere del loro matrimonio, con strascichi di sofferenze, polemiche, silenzi e incertezze. È una fotografia quella di Bergman di una crepa sociale che trova eco nella società borghese in Svezia ma non solo.
La Commissione valutazione film della Cei ha accolto con atteggiamento vigile la proposta, non mancando di trovare elementi positivi nello sguardo analitico del regista svedese. In particolare si legge nella valutazione pastorale dell’epoca: “Il lavoro è indubbiamente complesso, perché attraverso l’esame di un rapporto coniugale che si sfalda e poi si ricompone su altre basi, abbraccia molte tematiche subordinate riguardanti la vita dell’individuo, la sua libertà, il suo rapporto con altre persone, i suoi doveri verso la collettività. (…) È certamente un discorso molto positivo che, tuttavia, richiede la maura riflessione dell’adulto, sia per questa originale forma di argomentazione, sia per alcune asprezze realistiche dei dialoghi, sia per la necessità di colmare alcune lacune come l’aggancio del matrimonio alla propria fede e alla completezza di un discorso d’amore che non può non agganciarsi che a Dio. Accettabile, complesso, dibattiti” (“Segnalazioni cinematografiche”, Vol. 78, 1975, p. 483).