Media e società
Sempre più frequenti sono i commenti pieni di odio e di livore scritti per chiosare questa o quell’altra notizia. A volte gli autori si nascondono dietro nomi fittizi. Altre volte la loro identità è palese, con nome e cognome. Ora è chiaro che è un diritto sacrosanto esprimere il proprio parere e quindi manifestare il proprio dissenso, anche animatamente… Ma perché arrivare a una tale esasperazione? Ci pensiamo mai agli effetti delle nostre parole? E come cristiani – sia laici sia preti – che frequentiamo internet, facciamo attenzione a quello che scriviamo o ci prestiamo, consapevolmente o inconsapevolmente, a diffondere messaggi di odio e di intolleranza?
“Cattiveria, rabbia tossica partigiana, disonestà intellettuale, sessismo sono a livelli mai visti prima. La libertà di espressione ormai è sinonimo di livore”. Sono le parole con cui Maggie Haberman, corrispondente della Casa Bianca per il New York Times, premio Pulitzer 2018, denuncia il tenore dei commenti che legge sempre più spesso su uno dei principali social network (Twitter), ma che può valere per tutta la galassia di internet. Sempre più frequenti infatti sono i commenti pieni di odio e di livore scritti per chiosare questa o quell’altra notizia. A volte gli autori si nascondono dietro nomi fittizi. Altre volte la loro identità è palese, con nome e cognome. Ora è chiaro che è un diritto sacrosanto esprimere il proprio parere e quindi manifestare il proprio dissenso, anche animatamente… Ma perché arrivare a una tale esasperazione? Perché trasudano odio, arroganza e volgarità così tanti commenti? Gli insulti e le offese scritte sui social network è come se fossero diffusi a mezzo stampa: sono passibili di denuncia per diffamazione. E la polizia postale può risalire piuttosto agevolmente anche a chi si nasconde dietro a un falso nome. Ma tutto questo sembra non agire da deterrente… Gli esempi di questa disgustosa marea di odio si sprecano. Non c’è solo il “famoso” caso della ex presidente della Camera Boldrini, che ha deciso di denunciare sistematicamente tutte le offese e minacce che le sono piovute addosso sui social.
Tra gli innumerevoli episodi, ci sono anche casi più recenti di odio “virale”, come i commenti acidi scagliati contro Josefa, la naufraga salvata dopo due giorni in mare, ritenuta “colpevole” perché il personale della nave di soccorso si è preoccupato di accudirla con un semplice gesto di umanità (e di femminilità) come laccarle le unghie delle mani. Oppure vi sono commenti su Sergio Marchionne, scomparso mercoledì, dal tenore – per usare un eufemismo – denigratorio. Ma gli attacchi violenti non hanno risparmiato (e non risparmiano) nemmeno l’ex presidente della Repubblica Napolitano o l’attuale presidente Mattarella… Neppure Papa Francesco, reo – secondo i suoi detrattori – di essere la causa di tutti i mali della Chiesa (e della società) di oggi. La lista di persone “famose”, vittime del web, potrebbe allungarsi e gli attacchi riguardano – mi sembra in modo abbastanza egualmente ripartito – esponenti sia di un indirizzo di pensiero politico sia dell’altro. Tuttavia la spirale di odio e di disprezzo scatenata dagli “haters”, cioè gli odiatori che infieriscono con i loro commenti malevoli, non si ferma ai personaggi pubblici. No, infierisce a valanga anche contro gli utenti che la pensano diversamente. Talvolta questi “odiatori” sono dei banali “leoni da tastiera”, perché vigliaccamente ruggiscono soltanto dalla loro scrivania. Altre volte sono dei veri e propri “troll”, termine tecnico per indicare quei tali che si divertono a seminare zizzania e a scatenare accese discussioni tra gli utenti (a volte con scopi non molto chiari): sono quelli che amano “accendere fuochi”… Ma perché, mi chiedo, tanto odio? Tra le varie interpretazioni che possiamo dare al fenomeno merita particolare attenzione quella che lo considera come un’espressione della condizione dell’uomo di oggi, più arrabbiato e incattivito, più cafone e maleducato, abitato da un senso dell’io esagerato e fragile al contempo.
Non è soltanto una questione di ignoranza, ma è un atteggiamento di fondo, malato, che trova nei social una via privilegiata per affiorare e per esprimersi. Quei commenti non si direbbero mai personalmente al diretto interessato: sul web, invece, si crede di poterli esternare, perché ci si sente in qualche modo protetti e a debita distanza. Anche se non è così, perché le parole – dette o scritte – hanno delle conseguenze, sempre, in ogni caso. Anche quelle sul web… Ci pensiamo mai agli effetti delle nostre parole? E come cristiani – sia laici sia preti – che frequentiamo internet, facciamo attenzione a quello che scriviamo o ci prestiamo, consapevolmente o inconsapevolmente, a diffondere messaggi di odio e di intolleranza? Un amico esperto dei mezzi di comunicazione digitale, ad un incontro sui social per i preti della nostra diocesi, ebbe a dire: “Un cristiano – e quindi anche un prete – deve ricordarsi che è tale sempre, anche quando scrive su Facebook e sugli altri social network”. Alcuni mesi fa, la Chiesa svedese ha pubblicato una sorta di decalogo per aiutare i cattolici a non scadere in commenti inopportuni, che possono ferire la sensibilità altrui, e per utilizzare adeguatamente i social network: “Se ti esprimi come cattolico – vi si legge –, tieni presente che rappresenti la Chiesa cattolica”. Prima di scrivere, pubblicare o condividere qualsiasi cosa, allora, riflettiamo bene e chiediamoci quale messaggio vogliamo comunicare.
(*) direttore “L’Azione” (Vittorio Veneto)