Nuovi scenari
Il nostro Paese, profondamente trasformato dalla recessione globale, è spaccato in cinque ma ha gli anticorpi per reagire al declino. Occorre però fare i conti con la questione della redistribuzione sociale, riformando welfare, politiche del lavoro, sistema formativo, istruzione. Ne è convinta Paola Vacchina, responsabile Dipartimento studi e ricerche delle Acli
Non una ma cinque. Sono le Italie disegnate dalla ricerca Iref “Le cinque Italie al voto”, presentata a Trieste nel corso del 51° Incontro nazionale di studi delle Acli (13 – 15 settembre). E non mancano differenze e fratture generazionali all’interno di queste stesse macroregioni. Fratture che per Paola Vacchina, responsabile tecnico del Dipartimento studi e ricerche delle Acli, si possono risanare “purché tutti mettano da parte interessi particolari e guardino al bene comune”.
Un Paese spaccato in cinque, nel quale lo sviluppo dei territori in crescita non è omogeneo: inclusivo in alcuni, in altri lascia dietro di sé una scia di disuguaglianze, e i territori svantaggiati presentano anch’essi fisionomie molto diversificate. Quali le cause?
La ricerca, attraverso una rigorosa analisi su indicatori e statistiche a livello provinciale, delinea la geografia socio-economica di un Paese profondamente trasformato dalla recessione globale: vi sono i Poli dinamici, le Comunità prospere, i Territori industriosi, le Province depresse e il Sud fragile, dove purtroppo il divario rispetto alle altre aree del Paese è molto profondo. Una disomogeneità che ha molte cause. Tra queste la divaricazione nelle prospettive di vita tra ventenni-trentenni e cinquantenni-sessantenni. Oggi i millennials sono i più penalizzati: faticano ad entrare nel mercato del lavoro, spesso costretti ad accettare impieghi precari, malpagati e dequalificanti, senza poter più contare sulla generosa rete di protezione sociale di cui hanno beneficiato le generazioni precedenti. A questo si aggiunge l’impoverimento dei ceti medi e popolari che hanno subito un declassamento sociale negli anni della crisi: i cittadini più vulnerabili hanno pagato il prezzo più alto per il fatto di vivere in una nazione che non progredisce ormai da trent’anni.
Un Sud in declino e uno in disagio profondo; se il primo ha le carte in regola per risalire la china, il secondo non sembra tentare una reazione alla crisi. Quali interventi sarebbero necessari?
Quando si vive in contesti fragili dove, fatte salve le debite distinzioni, vi sono condizioni di degrado e stagnazione economica è normale che possa subentrare un senso di rassegnazione. In altri luoghi meridionali, dove si materializzano opportunità di sviluppo, si fanno largo attori e iniziative sociali che cercano di innovare, valorizzando le risorse locali: bellezze artistiche e paesaggistiche, filiera agroalimentare di prim’ordine, distretti industriali, ricerca, cultura. Realtà propulsive che non mancano da Roma in giù. Nelle “province depresse” si vedono i prodromi della crescita; in altre aree prevalgono debolezze e contraddizioni che impediscono di far partire il treno dello sviluppo.
Non esistono ricette risolutive per il Mezzogiorno: servirebbero strategie politiche mirate, fondate sulla conoscenza dei problemi locali e dei soggetti sociali che possono contribuire a superarli.
Negli ultimi anni, è stato detto all’Incontro, un po’ di ricchezza è stata prodotta. Perché sono mancate le condizioni per una sua equa ridistribuzione?
La recessione globale, oltre a creare lacerazioni sociali profonde nel tessuto della nostra società, ha dimostrato che le ricette neoliberiste non funzionano più. Gli automatismi del mercato non garantiscono né benessere diffuso né coesione sociale. Mai come oggi viviamo in un modo diseguale e squilibrato. La ricerca dell’Iref delinea un quadro accurato sulle principali trasformazioni che ha subito il nostro paese dopo il fallimento della Lehman Brother. Le asimmetrie tra territori sono aumentate: il divario tra regioni centro-settentrionali e meridionali esiste ancora, ma la geografia economica e sociale del Paese si è complicata. Nelle aree più dinamiche e produttive la forbice tra ricchi e poveri si è allargata di più rispetto ad altre realtà territoriali. Segno che la crescita non genera meccanismi di inclusione e adattamento sociale. Spesso avviene il contrario: sono le asimmetrie sociali a prevalere. L’impressione è che si debba tornare a
fare i conti con la questione della redistribuzione sociale, riformando welfare, politiche del lavoro, sistema formativo, istruzione
che sono stati pensati per le passate generazioni di lavoratori e non sono più adatti alla condizione vissuta dai giovani.
Laddove si registra maggiore povertà lo Stato sembra battere in ritirata e il civismo, sottolinea la ricerca è ai minimi termini. Qual è il rischio?
Nelle aree più fragili il rischio è quello della desertificazione sociale, che in parte già si sta verificando in alcune centri meridionali: i giovani partono cercando fortuna nelle regioni del centro-nord o all’estero, rimangono anziani e persone senza rete, è lo stesso territorio a depauperarsi di risorse essenziali: tagli sulla sanità, deterioramento dell’ambiente e del decoro urbano; i pochi imprenditori che continuano la loro battaglia per risollevare le sorti della propria comunità territoriale restano isolati in zone dove la presenza della criminalità organizzata è ancora forte, nonostante il contrasto da parte delle forze dell’ordine e della società civile più consapevole e impegnata.
In che misura questo scenario ha influenzato le scelte elettorali dello scorso 4 marzo?
La crisi economica e la crescente marginalità sociale hanno certamente influenzato l’esito delle elezioni. La Lega è cresciuta soprattutto nelle prime tre Italie, dove in varie forme è presente un tessuto fatto di piccole realtà economiche, che subiscono gli effetti della globalizzazione e del progresso tecnologico, oltre che della crisi economica. Il Movimento 5 Stelle è cresciuto soprattutto nell’Italia del declino e del Sud profondo, intercettando quella parte di paese storicamente più debole e meno reattiva sul piano economico. Sul piano programmatico, Forza Italia e Pd, partiti riformisti del bipolarismo classico, hanno continuato a rivolgersi ad un ceto medio intellettuale delle grandi città, trascurando il ceto medio impoverito e il neo-proletariato giovanile, non a caso hanno preso anche il 40-45 % nelle province a benessere diffuso.
Si può parlare di un nuovo corso?
Sì, anche perché la transizione al nuovo bipolarismo risale già al 2013, con la nascita dal nulla di un partito che ha preso il 23% su scala nazionale. Il 2018 non solo ha confermato l’ascesa del Movimento 5 Stelle come partito di governo, ma ha registrato il passaggio della Lega da partito territoriale a partito di identità nazionale. L’alternativa a questo nuovo assetto politico è l’astensionismo, non il ritorno al bipolarismo classico.
O si cambiano le condizioni strutturali che stanno portando l’Italia al declino o nel tempo il bipolarismo classico sarà soltanto oggetto di studio nei corsi di storia.
Tra crisi di rappresentanza e ascesa di populismi e sovranismi, qual è oggi in Italia lo stato di salute della democrazia?
L’Italia è una democrazia giovane, e sconta peccati di gioventù. Nel nostro Paese le crisi politiche avvengono ogni 20-25 anni, e sempre per eventi drammatici: fu così all’indomani dell’omicidio di Aldo Moro, fu così dopo tangentopoli, è così con la crisi economica che stiamo subendo. La transizione dalle vecchie rappresentanze politiche alle nuove passa per una dialettica dura, ma è nell’ordine delle cose:
la società italiana mostra di avere gli anticorpi politici per reagire al declino
e sta trovando in sé nuove forme di rappresentanza in grado di ridisegnare le priorità del paese e indirizzarlo verso un orizzonte più vicino alle esigenze degli italiani. Ricondurre i cosiddetti populisti nell’alveo del riformismo è ciò che auspichiamo tutti, ma governare non è mai stato facile per nessuno, non lo sarà neanche per loro.