#Synod18
Papa Francesco ha aperto il Sinodo con un’omelia incentrata su due verbi – sognare e sperare – per “guardare direttamente il volto dei giovani”, senza lasciarsi condizionare da “profeti di sventura” o da “errori e peccati” anche di figli della Chiesa. No ad “autopreservazione e autoreferenzialità”, sì allo sguardo profetico di Paolo VI e alla sua fiducia nei giovani, che la Chiesa non può lasciare nelle mani dei “tanti mercanti di morte”. Nell’ampio discorso di apertura, durato più di mezz’ora e lungamente applaudito, un “grazie” ai giovani e l’invito a dialogare tra le generazioni uscendo da pregiudizi e stereotipi. Perché il risultato del Sinodo non è “solo un documento”
Due verbi: sognare e sperare, con i relativi sostantivi. Una raccomandazione preliminare: non lasciarsi soffocare dai “profeti di sventura né dai nostri limiti, errori e peccati”. Un obiettivo: “Allargare gli orizzonti, dilatare il cuore e trasformare quelle strutture che oggi ci paralizzano, ci separano e ci allontanano dai giovani”. Papa Francesco ha aperto la XV Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei vescovi, in corso fino al 28 ottobre, sul tema: “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”, invitando i 267 padri sinodali provenienti da ogni parte del mondo – compresa la Cina continentale, ha fatto notare lo stesso Francesco dando il benvenuto ai nuovi arrivati – a lottare a fianco dei giovani, per non lasciarli soli “nelle mani di tanti mercanti di morte”. La “Magna Charta” del Sinodo, per il Papa, sono le parole pronunciate da Paolo VI – che il 14 ottobre verrà proclamato santo proprio in Piazza San Pietro – nell’ultimo messaggio dell’assise conciliare, indirizzato proprio ai giovani. Nell’ampio discorso di apertura della prima Congregazione generale, durato più di mezz’ora e lungamente applaudito, un “grazie” ai giovani e l’invito a dialogare tra le generazioni uscendo da pregiudizi e stereotipi. I giovani “vogliono essere protagonisti del rinnovamento in atto”, ha detto il card. Lorenzo Baldisseri, segretario generale del Sinodo, nella sua relazione. L’arte dell’accompagnamento è “la competenza più richiesta dai giovani”, che vogliono “una Chiesa “più autentica”, gli ha fatto eco il relatore generale, il card. Sergio da Rocha.
“Che lo Spirito ci dia la grazia di essere Padri sinodali unti col dono dei sogni e della speranza, perché possiamo, a nostra volta, ungere i nostri giovani col dono della profezia e della visione; ci dia la grazia di essere memoria operosa, viva, efficace, che di generazione in generazione non si lascia soffocare e schiacciare dai profeti di calamità e di sventura né dai nostri limiti, errori e peccati, ma è capace di trovare spazi per infiammare il cuore e discernere le vie dello Spirito”. È l’auspicio, in forma di preghiera, con cui si apre l’omelia di Francesco in piazza San Pietro. Poi il Papa chiarisce subito il programma del suo terzo Sinodo, dopo i due dedicati alla famiglia:
“La speranza ci interpella, ci smuove e rompe il conformismo del ‘si è sempre fatto così’, e ci chiede di alzarci per guardare direttamente il volto dei giovani e le situazioni in cui si trovano. La stessa speranza ci chiede di lavorare per rovesciare le situazioni di precarietà, di esclusione e di violenza, alle quali sono esposti i nostri ragazzi. I giovani, frutto di molte delle decisioni prese nel passato, ci chiamano a farci carico insieme a loro del presente con maggior impegno e a lottare contro ciò che in ogni modo impedisce alla loro vita di svilupparsi con dignità. Essi ci chiedono che non li lasciamo soli nelle mani di tanti mercanti di morte che opprimono la loro vita e oscurano la loro visione”.
La Chiesa, per Francesco, si caratterizza per la “capacità di sognare insieme”, senza cercare il proprio interesse. “Metterci in ascolto gli uni degli altri”, secondo il Papa, vuol dire far sì che
“non prevalga la logica dell’autopreservazione e dell’autoreferenzialità,
che finisce per far diventare importante ciò che è secondario e secondario ciò che è importante”.
Primo imperativo, l’ascolto: “Ascoltare Dio, per ascoltare con Lui il grido della gente; ascoltare la gente, per respirare con essa la volontà a cui Dio ci chiama”, raccomanda Francesco sulla scorta delle parole pronunciate nella Veglia che ha preceduto il Sinodo sulla famiglia. Solo così si evita la
“tentazione di cadere in posizioni eticistiche o elitarie”,
come pure “l’attrazione per ideologie astratte che non corrispondono mai alla realtà della nostra gente”.
“L’uomo mantenga quello che da bambino ha promesso”. Il Papa cita il poeta tedesco Hölderlin per rammentare alla memoria quello che molti padri conciliari hanno sentito da giovani, come lui, durante il Concilio. L’ultimo messaggio, rivolto da Paolo VI l’8 dicembre 1965 proprio ai giovani, è la consegna finale del Papa. Quasi un viatico per i lavori d’inizio, solo qualche ora dopo.
La prima Congregazione generale comincia con il “grazie” ai circa trenta giovani presenti con i padri sinodali e a quelli collegati via Internet nei cinque continenti, che hanno deciso che “vale la pena di sentirsi parte della Chiesa o di entrare in dialogo con essa”.
Il discernimento “non è uno slogan pubblicitario” né “una moda di questo Pontificato”, fa notare il Papa a proposito del tema dell’assise sinodale. Poi una proposta per rispettarne i tempi lunghi: fare “un momento di silenzio”, circa tre minuti, ogni cinque interventi in Aula.
Una Chiesa “in debito di ascolto” anche nei confronti dei giovani, per Francesco, deve saper uscire “da pregiudizi e stereotipi” reciproci, nel dialogo tra le generazioni. Perché il risultato del Sinodo non è “solo un documento”. L’omelia in piazza San Pietro era cominciata con la citazione dell’ultimo messaggio del Concilio, ad opera di Paolo VI, ed il primo discorso in Aula sinodale termina con la citazione del primo discorso di Giovanni XXIII, all’apertura del Vaticano II. Il suo, come quello di Francesco, è un “no” alle “profezie di sventura”, a “frequentare il futuro” tenendo fisso lo sguardo sul bene che “non è tema dei blog né arriva sulle prime pagine”.
Senza spaventarsi “davanti alle ferite della carne di Cristo, sempre inferte dal peccato e non di rado dai figli della Chiesa”.