Grande Guerra
Ritorna il 4 novembre. Una celebrazione nata nel 1919 come “Giornata dell’Unità nazionale e delle Forze armate”: fu la retorica fascista, quando ancora risuonavano i passi della marcia su Roma, a mutarne nel 1922 il nome in “Anniversario della Vittoria”
Dici “vittoria” e pensi a qualcosa di definitivo, di conclusivo.
Eppure quel 4 novembre 1918, la Vittoria che diede il nome al Bollettino di guerra firmato dal generale Armando Diaz segnò solo una pausa nella Via Crucis di stragi ed orrori per cui il Secolo breve sarà sempre ricordato nella storia dell’umanità.
Terminava una guerra ma la pace che Papa Benedetto XV nell’enciclica “Quod iam diu” auspicava “giusta e duratura” era troppo effimera: già quel giorno venivano gettate le basi del nuovo conflitto che quattro Lustri dopo avrebbe nuovamente infiammato l’Europa ed il mondo.
Chi era vincitore troppo presto aveva dimenticato cosa significasse essere vinto; chi era vinto avrebbe in tutti i modi, da subito, cercato di tornare vincitore.
Vincitori e vinti sono legati da un vincolo che solo la saggezza dei profeti sa trasformare in qualcosa che non divide ma aiuta entrambi a progredire.
Le firme sotto i testi degli armistizi erano le stesse che avevano siglato le dichiarazioni di guerra.
Quei documenti erano stati scritti col sangue che aveva violentato in profondità le doline del Carso, aveva deturpato il candore delle nevi dolomitiche, aveva trasformato in pietraie i boschi della Galizia, aveva raggiunto le profondità dei mari…
Il Vecchio Continente era rimasto pressoché orfano di un’intera generazione dei propri figli più giovani ed anche di questo avrebbe a breve pagato le Conseguenze a livello umano ma anche culturale e sociale.
Ma quel 4 novembre di 100 anni riuscì ad essere anche un’altra Vittoria, capace di unire quelli che la Storia catalogò come vincitori e vinti.
Fu la Vittoria di chi riuscì a ritornare a casa.
Di chi ce l’aveva fatta a sopravvivere, di chi era riuscito a mantenere la propria umanità nonostante tutto quello che aveva dovuto vivere e sopportare.
Fu la Vittoria dei soldati che avevano visto Thanatos camminare al proprio fianco ed ancora si chiedevano perché avesse abbracciato non loro ma quel compagno d’armi da cui, al momento dell’assalto o nelle interminabili ore trascorse in trincea, erano separati da pochi centimetri.
Militari separati dalle bandiere ma accomunati da tragici destini. Che avevano magari avuto la sorte di essere i noni in quelle file dove il vicino sarebbe stato fucilato “per dare l’esempio”, colpevole solo di avere un numero sbagliato, il dieci. Che avevano sopperito col proprio valore ed il proprio coraggio all’insensatezza di ordini dati da chi considerava i propri sottoposti solo carne da Macello. Che avevano bestemmiato e pregato disperati, nella propria lingua e secondo la propria fede, un Dio che non poteva essere un Dio della guerra ma doveva essere il Dio della pace.
Fu la Vittoria delle donne e degli uomini, dei bambini e degli anziani, che avevano dovuto farsi profughi lasciando le proprie case, le proprie storie, i propri affetti cercando rifugio in luoghi lontani e troppo spesso inospitali.
Fu la Vittoria di chi, nonostante tutto, nelle proprie città e nelle proprie case era rimasto ed aveva diviso la quotidianità con la paura dei bombardamenti, la violenza degli eserciti di passaggio, l’insicurezza sulla sorte dei propri cari lontani, la ricerca disperata di un po’ di cibo…
Fu la Vittoria della Vita sulla morte, della speranza sulla disperazione, della luce sulle tenebre.
Ed è giusto ricordarla e celebrarla perché nessuno abbia più a dire – come ci ha ricordato Papa Francesco a Redipuglia quattro anni or sono – “A me che importa?”.
(*) direttore “Voce Isontina” (Gorizia)