Editoria

Fondo per il pluralismo. Dalle sigle di settore un “no a tagli indiscriminati”

Fisc, File, Uspi e Alleanza delle Cooperative italiane comunicazione si dicono disponibili a migliorare ulteriormente la legge sull’editoria. Ma fanno quadrato per tutelare quel presidio di democrazia rappresentato da centinaia di testate sparse sul territorio nazionale. Voci senza le quali l’Italia si scoprirebbe più povera

foto SIR/Marco Calvarese

“No a tagli indiscriminati” al Fondo per il pluralismo e disponibilità a sedersi ad un tavolo con il Governo per migliorare ulteriormente la legge sull’editoria. È la posizione unanime espressa dalle associazioni di rappresentanza del mondo dell’informazione giornalistica.

Federazione italiana dei liberi editori (File), Federazione italiana dei settimanali cattolici (Fisc), Alleanza delle Cooperative italiane – settore comunicazione e Unione della stampa periodica italiana, ma anche Ordine dei giornalisti e Federazione nazionale della stampa italiana fanno quadrato per

difendere il pluralismo dell’informazione, la cui tutela è messa nuovamente in discussione dalla minaccia di tagliare i fondi – circa 50 milioni di euro nel 2017 – che consentono di mantenere in vita circa 300 testate diffuse sul territorio nazionale. Una realtà che dà lavoro a circa 10mila persone tra occupati diretti e indotto.

Nelle ultime settimane, a far preoccupare il settore sono state non solo le dichiarazioni di alcuni esponenti di governo – il vicepremier Di Maio e il sottosegretario Crimi, entrambi Cinquestelle – ma anche l’indirizzo contenuto nella risoluzione di maggioranza sulla Nota di aggiornamento al Def in cui si prevede “un graduale azzeramento a partire dal 2019 del contributo del Fondo per il pluralismo – quota del Dipartimento informazione editoria, assicurando il pluralismo dell’informazione e la libertà di espressione”.

Il pluralismo informativo si è già ridotto fortemente in questi anni,

fanno notare le sigle di settore: ci sono delle realtà intere completamente prive di informazione o che nel caso migliore hanno una sola fonte di informazione.

In alcuni casi è quella dei settimanali diocesani l’unica voce a raccontare cosa capita, anche solo per poche persone. Una presenza, ben radicata sul territorio, il cui eventuale venir meno sarebbe come se una parte d’Italia non esistesse più.

Senza questo presidio di pluralismo, che è anche un pungolo per la società e un controllo quotidiano sulle amministrazioni locali, l’Italia si ritroverebbe più povera. Non solo di voci ma anche di democrazia.

Ma le associazioni non rimangono in una posizione semplicemente difensiva. Chiedono di avviare un tavolo tecnico di confronto con tutte le categorie impegnate nella filiera editoriale dell’informazione per ricercare, a partire dalla legislazione attuale, nuovi possibili miglioramenti sul terreno del rigore, della trasparenza e dell’innovazione. Nel mirino è la legge 198 del 2016 che ha riformato il sistema dell’editoria e ha istituito il Fondo per il pluralismo e l’innovazione dell’informazione. Una normativa che ancora non ha spiegato i suoi effetti, considerato che è entrata in vigore compiutamente solo nell’anno in corso, ma che qualcuno vorrebbe già superare. Una legge che, al momento, ha consentito alle imprese giornalistiche di programmare con criteri di efficienza, efficacia e di valore sociale i propri piani industriali. Due anni dopo aver ottenuto un importante risultato, grazie ad un percorso di riforma difficile e complesso, ora sembra tornare tutto in discussione.

Per questo le sigle chiedono con urgenza, in particolare al premier Giuseppe Conte, di poter

avviare con il Governo un confronto con l’obiettivo di giungere a politiche di sostegno al pluralismo dell’informazione che vedrebbe una contrazione se fosse solo il mercato a dettare le regole del gioco.

Centinaia di testate – piccole o con un’ampia diffusione, cartacee e online – chiedono di poter continuare ad essere voci libere e indipendenti, punti di riferimento per tanti territori e comunità che altrimenti rischierebbero di rimanere senza fonti d’informazione autorevoli e radicate. Nell’era delle fake news diffuse spesso con superficialità sui social network l’Italia non se lo può certo permettere.