Lavoro
Non solo i criminali comuni, ma anche le grandi imprese possono rendersi responsabili di reati “violenti”. Lo si è visto di recente con Amazon, Eternit, Ilva, Monsanto e Thyssen Krupp. Fino al recentissimo disastro di Genova
Nel luglio di quest’anno, giornali e siti d’informazione hanno ampiamente riferito che Jeff Bezos, il fondatore e Ceo di Amazon, è l’uomo più ricco del mondo, anzi della storia moderna, con un patrimonio superiore ai 150 miliardi di dollari. A qualcuno l’immagine di “Paperone-Bezos” avrà fatto tornare alla mente le molte notizie dei mesi precedenti sulle condizioni di lavoro in Amazon: “Livello abnorme di patologie, e l’incidenza epidemiologica al di sotto di ogni sospetto” (“La Repubblica”, 4 aprile 2017); “ritmi stressanti e un controllo giornaliero costante”, “problemi fisici e psicologici di molti dipendenti, dentro Amazon si resiste in media 3 anni” (“Adnkronos” e “La Stampa”, 24 novembre 2017).
Al di là della considerazione generale su quali e quanti profitti traggano poche persone dal fatto che i nostri interessi di consumatori siano così facilmente anteposti ai diritti dei lavoratori e, in genere, dei cittadini, condannati alla “solitudine” (per dirla alla Bauman) da una globalizzazione senza regole, queste notizie offrono lo spunto anche per una riflessione più specifica sulla legalità in campo economico, nonché su natura ed effetti dei cosiddetti “crimini dei colletti bianchi” (white collar crimes) e dei “reati d’impresa” (corporate crimes).
Edwin H. Sutherland, uno dei maggiori criminologi del Novecento, definiva
“crimini dei colletti bianchi” gli illeciti commessi da persone rispettabili e di elevata condizione sociale nel corso della loro occupazione
(Il crimine dei colletti bianchi. La versione integrale, 1987). Illeciti, si veda bene, cui Sutherland attribuiva la fondamentale caratteristica di creare “violazioni della fiducia delegata o implicita”: una sorta di tradimento dell’aspettativa sociale legata alla rispettabilità di certi soggetti. Nei loro confronti, scriveva, è come se ognuno si trovasse con “la guardia abbassata”: nella situazione di un bambino cui un adulto possa sfilare di mano con facilità una caramella (“take a candy from a child”). Una posizione di forza (economica, legale, epistemica e culturale) che permette ai “colletti bianchi” di sottrarsi facilmente anche al controllo delle autorità pubbliche e, così, – per riprendere un’idea fondamentale della dottrina sociale della Chiesa – al “bene comune storicamente realizzabile” che queste sarebbero chiamate a perseguire.
La violenza delle corporations. Si può usare la parola “violenza”, parlare di corporate violence, a proposito dei danni fisici e psicologici lamentati dai dipendenti di Amazon a causa delle condizioni di lavoro e in generale delle conseguenze personali derivanti dalle condotte illecite di grandi imprese? E un tale inquadramento può offrire al diritto punti di vista utili per meglio realizzare “l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono sia alle collettività sia ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più celermente” (per riprendere di nuovo un’accezione del “bene comune” espressa in autorevoli enunciati di dottrina sociale della Chiesa)? Ossia, volendo tradurre queste espressioni nel linguaggio dei giuristi: per meglio proteggere i “beni giuridici”, ossia i valori sociali rilevanti per l’ordinamento, e i soggetti, individui e collettività, che ne sono titolari e che potrebbero trovarsi nella veste di vittime di quelle “violenze”?
L’espressione corporate violence presenta ormai un uso consolidato in criminologia. Vi si intendono i reati commessi da società commerciali nel corso della loro attività legittima e implicanti offese alla vita, all’integrità fisica o alla salute delle persone.
Come si può vedere, il focus non è sulle caratteristiche soggettive degli autori, o sulla natura volontaria o meno degli atti, ma sugli effetti dannosi derivanti alle persone, a delle “vittime”. Intendendosi per “vittima”, secondo la fondamentale Direttiva n. 29 del 2012 dell’Unione europea (“che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato”), “una persona fisica che ha subito un danno, anche fisico, mentale o emotivo, o perdite economiche che sono stati causati direttamente da un reato; un familiare di una persona la cui morte è stata causata direttamente da un reato e che ha subito un danno in conseguenza della morte di tale persona”.
Il concetto di corporate violence abbraccia dunque una casistica estremamente vasta di cui la cronaca giudiziaria italiana e straniera degli ultimi anni offre esempi macroscopici: Eternit, Ilva, Thyssen-Krupp, scandalo del sangue infetto, Talidomide, eccetera. Ma non c’è bisogno di risalire molto nel tempo. Ci sono fatti dell’agosto scorso che potrebbero inquadrarsi come ipotesi di “violenza d’impresa” (con le relative conseguenze legali, eventualmente anche di natura penale): il recente tragico crollo del ponte Morandi a Genova e il caso deciso negli Stati Uniti con la condanna del colosso dell’agrochimica Monsanto (acquistato di recente dalla Bayer) per il cancro alla pelle contratto da un giardiniere che aveva utilizzato un diserbante, il glifosato, che anche in Europa è oggetto di un acceso dibattito sulla sua dannosità.
Il fatto che in casi di questo tipo le morti e i danni alle persone non siano stati causati intenzionalmente o che non siano derivati da un’interazione diretta e immediata tra autore e vittima – e magari abbiano prodotto effetti non materiali ma esclusivamente psicologici – non toglie che si sia trattato di reati (per lo più gravemente colposi) che hanno posto molte persone nella condizione di vittima, proprio nel senso “tecnico” inteso dalla Direttiva.
Solo per il caso Eternit (la vicenda dell’impresa che ha contaminato luoghi di lavoro e territori con le letali polveri legate all’amianto) una stima approssimativa – ma la completa identificazione delle vittime è resa ardua dal lungo periodo di latenza delle patologie asbesto correlate – calcola in migliaia le morti tra i lavoratori di vari stabilimenti e tra i residenti nelle aree limitrofe. Non meno emblematico è lo scandalo del sangue infetto, che risale agli anni Ottanta e Novanta: prodotti emoderivati infetti per la cura dell’emofilia hanno causato il contagio da Hiv ed epatite C e B di un elevato numero di persone. Le patologie furono diffuse attraverso prodotti emoderivati ricavati da pool di sangue donato (o acquistato), una gran quantità del quale era però raccolto nelle carceri o da tossicodipendenti prima dell’adozione sistematica del test per l’Hiv.
Parlare di violenza delle corporations in relazione a questi fatti ha il vantaggio di mettere in luce le cause e, soprattutto, gli effetti dei fenomeni cui ci si riferisce, e non tradisce il significato originario del termine “violenza”, che trova le sue radici (mediate dal latino violentia e vis), nel greco bia (forza vitale) e, dunque, si associa (come nel termine tedesco Gewalt) all’idea di forza e, nell’uso successivo, alla capacità di imporsi contro la volontà di chi vi è assoggettato, trovandosi in un rapporto nel quale il più forte esercita una costrizione sul più debole. Riferito alle corporations è dunque come se la parola riconquistasse e rideclinasse, attualizzandolo, il proprio senso originario. Ponendo l’accento sulla vulnerabilità della vittima rispetto alla potenza dei soggetti che le producano “offese alla vita, all’integrità fisica o alla salute”, è come se questo concetto ridistribuisse all’interno del proprio campo semantico il rapporto tra intenzionalità della condotta e natura delle conseguenze, compensando la più ridotta intensità della prima, con la particolare gravità delle seconde (anche per la difficoltà di porvi rimedio, prima, durante e soprattutto dopo averle subite).
Non sono del resto estranee all’ordinamento giuridico disposizioni che, nella definizione delle responsabilità penali, attenuano il rilievo di componenti soggettive delle relazioni interpersonali in considerazione della particolare vulnerabilità di soggetti che vi siano coinvolti.
Così ad esempio con la presunzione di violenza in caso di atti sessuali con minori (anche “consenzienti”) di anni quattordici, o con minori di anni sedici quando a compierli sia un soggetto che abbia abusato dei “poteri connessi alla sua posizione” (art. 609-quater del codice penale).
Nelle interviste condotte nel corso di una ricerca empirica recente (Victims and Corporations. I bisogni delle vittime di corporate violence: risultati della ricerca empirica in Italia – agosto 2017, disponibile al sito www.victimsandcorporations.eu), le vittime hanno riferito che “[a Casale Monferrato] ogni settimana c’è un nuovo caso di mesotelioma e ogni settimana facciamo un funerale per un cittadino che muore della stessa malattia. […] E sempre di più la malattia colpisce soggetti giovani. […] Da sempre i casalesi sanno che questo tumore non ha cure efficaci e a questo tumore nessuno è mai sopravvissuto” (professionista: medico, caso Eternit). Oppure: “L’entità della catastrofe è [inimmaginabile]… sono morte centinaia di persone su una popolazione di tremila [quella degli italiani emofiliaci]. Quindi è stata una catastrofe…” (vittima di farmaci emoderivati infetti).
Molte vittime hanno descritto il loro caso usando parole come “catastrofe”, “carneficina”, “massacro”, “guerra”, eccetera. A causa delle estreme conseguenze riportate e del numero di persone coinvolte, molte di esse hanno persino paragonato la gravità di quanto subito agli effetti degli eventi di matrice terroristica avvenuti in Italia durante i cosiddetti “anni di piombo”, come le stragi di Piazza Fontana a Milano (1969), Piazza della Loggia a Brescia (1974), della stazione ferroviaria di Bologna (1980).
Il bisogno di protezione delle vittime. Le vittime di corporate violence sperimentano un grande bisogno di ricevere (citando l’articolo 1 della Direttiva) “informazione, assistenza e protezione adeguate” e di essere messe in grado di “partecipare ai procedimenti penali”. Si tratta di soggetti estremamente vulnerabili, anche perché in genere le loro sofferenze non presentano l’immediata evidenza (la latenza delle malattie contratte può durare decenni) che possa ingolosire i riflettori mediatici e perché un certo sentire comune (anche istituzionale) può essere cinicamente tentato di mettere quei danni alla salute (e alla vita) sull’altro piatto della bilancia dei vantaggi economici e occupazionali recati da certe produzioni nocive.
Naturalmente solo in minima parte a questo bisogno di aiuto si può e si deve rispondere attraverso e durante il processo penale. È anzi l’aggrapparsi delle vittime all’attesa spasmodica di “pene severe” nei confronti degli autori – inevitabilmente frustrata per la natura colposa dei reati in questione e per la difficoltà di accertamento processuale delle catene causali che hanno condotto ai danni alla vita e alla salute – a presentarsi spesso come una compensazione della mancanza di altre e più sostanziali modalità di soddisfazione (morale, sociale, economica, eccetera) dei loro bisogni, rispetto ai quali in particolare i percorsi di giustizia riparativa degni di questo nome offrono risposte sempre più promettenti e “ricostruttive”. Tranne che per specifiche “categorie” di vittime (spesso quelle i cui casi possono essere meglio asserviti alla ribalta mediatica) mancano però ancora “poli” o “agenzie” interdisciplinari deputati alla prima accoglienza e all’aiuto delle vittime di reato, i quali, secondo la Direttiva citata, rappresentano la soluzione migliore “per prestare alle vittime di reato assistenza, sostegno e protezione adeguati”.
La giustizia come “questione di coscienza universale”. In una conferenza tenuta in America nel 1938, Thomas Mann (La certa vittoria della democrazia, in Moniti all’Europa, 2017) sollecitava una riforma della libertà che facesse avanzare la democrazia oltre “l’epoca del liberalismo borghese, qualcos’altro che il laissez-faire, laissez-aller, perché così essa non può vincere, così non può più cavarsela”. Una “riforma di senso sociale”, la sola ritenuta capace di “strappare alla dittatura il suo vantaggio giovanilistico, che è bensì puramente temporaneo e alquanto menzognero, ma ha il potere di fare proseliti”.
Una riforma che, oltre a rivolgersi alla “libertà spirituale”, avrebbe dovuto portare a un rinnovamento economico, in grado di riscattare la “macchia”, lo “svantaggio morale, il quale permette perfino al fascismo di spacciarsi nei suoi confronti per ‘idealista’”, ossia “la signoria del denaro”.
Per Mann, dunque, la libertà avrebbe dovuto “completarsi con una disciplina sociale” per “far evolvere la rivoluzione borghese dal campo politico in quello economico, riconoscendo che la giustizia è l’idea dominante dell’epoca, che la sua attuazione, per quanto sta nelle forze umane, è una questione di coscienza universale che non può essere trascurata e alla quale non si può passar sopra”.
Oltre che un robusto miglioramento scientifico, tecnico, organizzativo e giuridico delle capacità di prevenzione degli eventi dannosi da parte delle grandi realtà economiche e un serio impegno (ben maggiore di quello profuso dal nostro legislatore con il Decreto Legislativo 15 dicembre 2015, n. 212, di – cosiddetta – “attuazione della direttiva 2012/29/Ue”), più in generale è su un nuovo welfare per le vittime dei reati e per tutte le vittime lasciate indietro dalla globalizzazione dei capitali che deve sostenersi una rinnovata idea di giustizia quale “questione di coscienza universale”. Un’idea cui tendere con energia e da cui non dovrebbe distrarre il “vantaggio giovanilistico, che è bensì puramente temporaneo e alquanto menzognero”, di certe prospettate riforme normative (ad esempio in materia di legittima difesa), destinate ad aggravare, non certo ad alleviare la solitudine del cittadino globale.
Forse un piccolo spunto per sviluppare poi più in grande questa idea può venire dalla pur isolata e improvvisata iniziativa del consiglio comunale di Seattle, la città nello stato americano di Washington dove ha sede Amazon, che nel maggio scorso ha approvato la cosiddetta Amazon tax: un’imposta di 275 dollari all’anno per ogni dipendente di grandi aziende che realizzino almeno 20 milioni di ricavi annuali. Si è pensato così di destinare i 50 milioni di dollari l’anno che si attendono come gettito di questa tassa sulle multinazionali all’emergenza dei senzatetto.
(*) professore ordinario di Diritto penale e Criminologia nell’Università Cattolica del Sacro Cuore, dove è preside della Facoltà di Giurisprudenza e direttore dell’Alta Scuola “Federico Stella” sulla Giustizia Penale. Ha coordinato, assieme a Claudia Mazzucato, Stefania Giavazzi e Arianna Visconti, una ricerca biennale promossa dalla Commissione europea, dal titolo Victims And Corporations. Implementation of Directive 2012/29/EU for victims of corporate crimes and corporate violence (www.victimsandcorporations. eu, dove sono reperibili tutte le pubblicazioni del progetto).
(*) (*) Questo articolo è pubblicato sul numero 5/2018 di “Vita e Pensiero”, il bimestrale culturale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore in uscita giovedì 15 novembre. Il Sir lo anticipa per gentile concessione della rivista.