Dopo il rapimento della volontaria
Lo slogan sbandierato da certuni, visceralmente contrari all’accoglienza di stranieri, soprattutto africani e medio orientali, “aiutiamoli a casa loro”, funziona solo come alibi per giustificare ogni chiusura e intransigenza. E difatti, la scelta di una giovane di andare ad aiutare i poveri in casa loro, in Kenya, si è trasformata nei social in caciara
Sembra che la volontaria milanese di 23 anni Silvia Romano, che prestava servizio in Kenya sia stata rapita nella sua casa da alcuni criminali comuni con l’intento di ottenere un riscatto. Silvia non è un’avventuriera. È mossa dal desiderio di fare un po’ di bene tra le persone più sfortunate di quel Paese, svolgendo un lavoro confacente agli studi che ha compiuto di mediatrice linguistica “per la sicurezza e la difesa sociale”. Non è partita da sola, ma con una organizzazione, la Onlus “Africa milele” (che in lingua swahili vuol dire “Africa per sempre”), che promuove iniziative dedicate all’età più vulnerabile, ossia all’infanzia. Fin qui la cronaca. Quello che, però, è accaduto subito dopo in Italia lascia sgomenti. Sui social, infatti, si è concentrato un coacervo di insolenze contro di lei; un vero bestiario che va dal “se l’è andata a cercare” e “poteva starsene a casa sua”, a offese pesanti del tipo: “frustrata”, “oca giuliva”, “disturbata mentale”. Cose che non si scrivono né si dicono quando, ad esempio, qualche escursionista o scalatore deve essere messo in salvo dal soccorso alpino. Ci dispiace tanto. A noi non resta che dire: “Forza Silvia e coraggio, siamo tutti con te”.
È a tutti noto che, anche nelle nostre parrocchie e più in generale nella società civile, chi presta un servizio di volontariato suscita in un certo numero di persone derisione, critiche a volte caustiche, chiacchiere sul tornaconto economico o di potere che ne può derivare. Non va giù che certuni dedichino tempo, energie e soldi per il bene della collettività. In fondo, per quei noti meccanismi di difesa o di proiezione, si cerca di squalificare e demonizzare coloro che praticano il volontariato, perché il loro agire suona come un giudizio per chi invece pensa ai fatti propri e non vuole “intrigarsi” con gli altri, oppure perché cozza contro il proprio modo di pensare e di vedere le cose. Quando, poi, si aggiunge alla gelosia anche una particolare stortura ideologica, allora le parole sfuggono a ogni controllo e a ogni forma di buona educazione e di civile convivenza.
Rigurgiti razzisti
Presumibilmente, le reazioni al sequestro di Silvia sono anche frutto di sentimenti, più o meno consci, di tipo razzista, stimolati anche da un clima politico e culturale che da un po’ di tempo sta diffondendosi nel nostro Paese, in particolare verso gli immigrati. A conferma che lo slogan sbandierato da certuni, visceralmente contrari all’accoglienza di stranieri, soprattutto africani e medio orientali, “aiutiamoli a casa loro”, funziona solo come alibi per giustificare ogni chiusura e intransigenza. E difatti, la scelta di una giovane di andare ad aiutare i poveri in casa loro, in Kenya, si è trasformata nei social in caciara.
L’ambivalenza dei social
Purtroppo, le critiche hanno trovato cassa di risonanza nel web. Sono, per così dire, uscite dalle “mura domestiche” o dal proprio animo e sono dilagate nella piazza, a disposizione di tutti. I social, da una grande opportunità di comunicazione, corrono il rischio di degenerare nel luogo – una sorta di moderna agorà – ove ognuno si sente libero di esporre ed esibire, senza pudore e ritegno, senza rispetto verso se stesso e verso gli altri, quello che è, quello che pensa e quello che fa.
Facilmente sui social l’istinto può avere il sopravvento sulla razionalità e sul buon gusto. Ognuno può scrivere contro un altro quello che al momento gli si scatena dentro, quello che gli ribolle in pancia, per di più impunemente giacché, a differenza della carta stampata, sfuggono a regole o norme sufficienti che proteggano il malcapitato di turno. Purtroppo, il web corre il rischio di diventare il collettore dei miasmi che escono dalla pancia della gente.
I nostri politici lo sanno bene (si spera), ma ci sguazzano dentro ugualmente, e alla grande. Anche loro, coadiuvati da staff di esperti, possono postare cose buone e sagge, ma anche, come succede spesso, raccontare bugie a non finire e sparlare degli avversari senza ritegno, avvalendosi, magari, di qualche “fake news”.
Quello di comunicare utilizzando i social è un vezzo che stiamo prendendo tutti. Ormai anche tra noi si preferisce sempre più postare uno scritto sul web o mandare una mail, buttati giù frettolosamente o di istinto senza il “filtro” condizionante della presenza dell’altro, piuttosto che affrontare a viso aperto una persona per manifestargli il proprio pensiero o anche il proprio disappunto.
(*) direttore de “La Vita del Popolo” (Treviso)