Conflitto israelo-palestinese
Il 15 gennaio i vescovi di Usa, Canada, Ue e Sud Africa si sono recati nel villaggio arabo-cristiano di Iqrit, in Galilea, ridotto a un cumulo di macerie dall’esercito israeliano la notte di Natale del 1951. Due anni dopo averlo evacuato durante la guerra arabo-israeliana. Gli abitanti del villaggio hanno sempre rivendicato il loro diritto al ritorno, riconosciuto anche dalla Corte Suprema israeliana. Senza esito. Per questo presidiano i resti del villaggio come forma di protesta pacifica. La testimonianza di Hanna Nasser che all’epoca aveva solo 10 anni
Hanna Nasser ha 81 anni. Di questi ben 71 li ha vissuti nell’attesa di ritornare a Iqrit, il villaggio arabo-cristiano della Galilea dove è nato e cresciuto fino all’età di 10 anni. Fino a quando, cioè, nel novembre del 1948, sei mesi dopo la nascita dello Stato di Israele, durante la guerra arabo-israeliana, l’esercito con la Stella di David entrò nel villaggio chiedendo agli abitanti di uscire temporaneamente per due settimane a causa delle operazioni militari in corso nell’area. Fu così che tutta la popolazione cristiana di Iqrit, 500 persone, fu trasferita nel vicino villaggio di Rameh.
Ma l’esilio era appena cominciato. Due settimane divennero due anni: così il 31 luglio del 1951 gli abitanti di Iqrit fecero ricorso alla Suprema Corte di Giustizia israeliana che sentenziò il loro diritto al ritorno. La risposta dell’esercito non si fece attendere e fu dura: la notte di Natale dello stesso anno mise a ferro e fuoco il villaggio lasciando in piedi solo la chiesetta dedicata a Maria e il piccolo cimitero. Tutta la terra del villaggio fu confiscata. Gli abitanti di Iqrit divennero di fatto dei rifugiati nella loro stessa patria disperdendosi tra Haifa, Acri, Giaffa, Gerusalemme, Rameh e altre città israeliane. Una sorte analoga subirono i villaggi circostanti di Kafr Bir’im, Nabi Rubin e Tarbikha.
Da quel giorno la lotta per il ritorno non è mai cessata, e gli abitanti di Iqrit come Hanna, e i loro discendenti, restano determinati a ottenere giustizia. Sono passati 71 anni e continuano a incontrarsi per pregare nella loro chiesa, a seppellire i morti nel piccolo cimitero e a insegnare ai loro figli e nipoti la storia del villaggio.
Ogni giorno qualcuno di loro ne presidia i resti, vale a dire un cumulo di macerie sparse intorno alla chiesa la cui facciata è arricchita da una statua della Vergine Maria adornata con una grande corona del Rosario. Resistono rigogliose le piante di fico d’India con cui gli abitanti dei villaggi della zona erano soliti segnare i rispettivi confini. Da queste parti dicono che le radici del fico sono talmente profonde che rinascono sempre anche se estirpate. Dopo 71 anni sono ancora lì a testimoniarlo. La vegetazione circostante è ricca e verde nonostante il periodo invernale. Le montagne del Libano si stagliano nitide a meno di 60 km. Dietro la chiesa i nativi di Iqrit hanno realizzato una piccola struttura che i soldati israeliani hanno più volte provato a distruggere ma senza esito. Un vecchio divano dove sedersi, una altalena e una tenda sono gli unici arredi ‘urbani’ del villaggio.
Hanna viene qui almeno due volte a settimana. Dopo una vita in esilio, trascorsa lavorando come infermiere a Jaffa e Haifa, sale a Iqrit per riprendersi quel passato che gli è stato tolto da una guerra che ancora continua.
“Ricordo tutto di quei giorni del novembre del 1948. Ricordo anche il fumo che si alzava dal villaggio quella notte di Natale in cui le nostre case furono fatte esplodere”.
La sofferenza di allora è la stessa di quella di oggi. Chiede di seguirlo. Qualche decina di metri, cammina con passo sicuro su un terreno scosceso di cui conosce ogni centimetro, ogni sasso, ogni buca. “L’ho percorso migliaia di volte” dice con un mezzo sorriso. Si ferma e con orgoglio mostra un cumulo di sassi: “ecco, questo è ciò che resta di casa mia. È una grande sofferenza vederla distrutta e non poterla ricostruire. Ma vengo qui quasi tutti i giorni perché qui sono nato, qui ho vissuto e questa è la mia vita.
Finché avrò la forza nelle gambe verrò tutte le volte che potrò”.
Hanna non vuole tornare nel suo villaggio solo da morto. Prima c’è da perpetuare la memoria di questa terra motivo per cui, dice, “porto qui anche i miei figli e i miei nipoti. Devono sapere che per la nostra famiglia tutto ha avuto inizio da qui”.
Le radici non si recidono. C’è un diritto al ritorno da far valere. È ancora viva, da queste parti, la storia di un poeta di Iqrit, Aouni Sbeit, che mentre gli abitanti di Iqrit protestavano davanti all’ufficio del Primo Ministro israeliano, disse a un giornalista: “se avvicini l’orecchio alla pancia di una donna incinta di Iqrit, sentirai il bambino dire che ritorneremo!”.