Società

I poveri pagano di più

Le famiglie povere si trovano a investire praticamente tutto quello che guadagnano per le spese essenziali, che sono quelle rincarate: per questo l’inflazione la sentono (e pagano) di più. Oltre il danno, la beffa

Essere poveri non conviene. Sembra una catalanata, invece è quanto sostiene, con la forza dei numeri, l’ultimo rapporto Istat, pubblicato una settimana fa. Dati alla mano, dimostra che gli effetti dell’inflazione del 2018 – che è uguale per tutti – pesano molto di più sulle famiglie povere che su quelle agiate. Come avvenga è presto detto.
Divise le famiglie in cinque fasce, a seconda dei redditi e dei livelli di spesa, l’Istat ha riscontrato che nel 2018 le famiglie meno abbienti hanno dovuto sobbarcarsi un’inflazione cresciuta dell’1,5%, mentre le benestanti dell’1,1% (era al 1,3% nel 2017). Non solo, nell’ultimo trimestre la situazione è peggiorata: inflazione all’1,8% per le meno abbienti e all’1,3% per le più abbienti.
A cosa si deve? Al fatto che ad essere aumentati sono stati i prezzi di energia e dei prodotti alimentari: pesa sulle famiglie il costo del gas, della benzina o gasolio, dell’acquisto del cibo.
Ora chi è più povero come spende i suoi averi? Pochi in spese consolatorie, quasi tutti invece per mantenersi, per quello stretto necessario in cui viveri e bollette rientrano a pieno titolo. Le famiglie povere si trovano a investire praticamente tutto quello che guadagnano per le spese essenziali, che sono quelle rincarate: per questo l’inflazione la sentono (e pagano) di più. Oltre il danno, la beffa.
Le famiglie più agiate, date le maggiori e variegate possibilità di spesa che non va tutta in cibo e bollette, sentono meno delle altre il peso dei rincari, poiché questi coinvolgono percentualmente una parte minore dei loro acquisti e gravano alla fine molto meno sul loro quadro economico. E così queste stanno meglio due volte: perché hanno maggiori introiti e perché l’inflazione non svuota i loro borsellini.
Un antipatico paradosso italiano che, se coniugato all’allarme recessione dei giorni scorsi, non promette nulla di buono. Bankitalia, infatti, ha stimato ridotta allo 0,6% (non all’1% previsto dal Governo) la crescita dell’Italia per il 2019. Visco ha parlato di una “possibile recessione tecnica” innescata dall’attuale frenata dell’economia che è italiana, ma anche europea e mondiale. Per l’Italia, in particolare, il 2018 si è concluso con un segno meno: il terzo trimestre ha registrato una contrazione dell’attività economica pari a -0,2% e il quarto trimestre potrebbe segnare un ulteriore ribasso.
Ora, poiché questi dati sono stati resi noti il giorno dopo il varo delle due manovre più attese da questo Governo – reddito di cittadinanza e quota cento -, le polemiche si sono subito innestate, facendo un polverone attorno ai numeri. Che invece sarebbe stato meglio cercare di capire.
Nel frattempo brutte nuove sono giunte anche da Bruxelles: la Commissione europea ha sottolineato che nel rapporto del 2018 sulla sostenibilità del bilancio i conti italiani manifestano “qualche vulnerabilità” nel breve periodo, ma sono “ad alto rischio nel medio e nel lungo termine” (un anno fa il rischio era considerato basso).
Se all’annunciata aria di china economica e alle valutazioni europee, si sommano da un lato le maggiori spese di Governo e dall’altra la situazione già pesante per le famiglie italiane, il quadro che si delinea non è dei più sereni. E se il buongiorno si vede dal mattino, questo 2019 pare alquanto rannuvolato.

(*) direttrice “Il Popolo” (Concordia-Pordenone)