Televisione

Abituati a tutto?

Se il buon senso non viene in soccorso sceverando il gusto e la bellezza autentica, è impresa difficile salvarsi dallo tsunami di un’abitudine regressiva, regno della banalità

Ci stiamo abituando a tutto? Parrebbe di sì. Ad un tutto che sovverte regole, criteri, limiti, accettazioni, tradizioni, rispetto. La multimedialità onnivalente e la facilità estrema di entrare in una logica rompitutto quale presunto segno di libertà stanno consegnando capovolgimenti di valutazione e stili di osservazione in permanente conflittualità con il passato, al punto che sono considerati dei sopravvissuti o dei moralisti dell’ultimo sussulto coloro che ricordano o sostengono valori e testimonianze di ieri.
Seguendo le cronache puntate sui vip e le molteplici tipologie dei programmi tv – talk show, dibattiti, spettacoli, intrattenimenti – si scopre che i freni sono stati sganciati: le parolacce sembrano di moda (a dispetto del buon gusto e dei minimi di educazione e di civiltà), le scelte di vita personale diventano soggetto ed oggetto di autoracconto e di preventiva autoassoluzione, molti, personaggi e no, paiono bearsi di una… normale licenziosità, gli amori sopravvenienti e combattuti e le crisi coniugali diventano trofei, quando emerge l’attenzione ai Valori è solo perché sono visti come rarità da circo. Moralismo sui generis, questo? No, i sopracitati rilievi sono frutto sereno di lettura e di ascolto, constatazioni di cronaca, spicchi di quotidianità rivisitata.
La cultura dello sfascio ci sta connettendo – uso un verbo di attualità – con un mondo che, respingendo il passato secondo la pregiudiziale disarmonia che vede obsoleto quello che non è manifestazione ostentata di oggi, introduce nel buio dell’affannosa ricerca del nuovo ad ogni costo. Nuovo, per i primattori contemporanei, è ciò che contesta la qualità dei comportamenti. È conseguente per costoro stordirci con chiacchiere subculturali fra il turpiloquio e l’ambiguità e con la decadenza di un linguaggio mortificante. Tutto, dal becero al greve, viene utilizzato: si pretenderebbe persino che ridessimo a quelle misere battute.
Se il buon senso non viene in soccorso sceverando il gusto e la bellezza autentica, è impresa difficile salvarsi dallo tsunami di un’abitudine regressiva, regno della banalità.
Solo la capacità autocritica e il rifiuto dei disvalori anche linguistici aiutano a ritrovarci padroni della nostra identità di telespettatori e di lettori decisi a non accettare di essere marchiati dal consumismo fuorviante delle parole a gogò.

(*) direttore “Il Popolo” (Treviglio)