Società
Da giovane prete, durante la benedizione delle famiglie, mi capitò di incontrare una signora anziana, che mi raccontò – tra le altre cose – di essere un’esule istriana. Mi colpirono molto la sua fede e il suo contegno, dignitoso e riservato, ma al tempo stesso segnato da un profondo senso di tristezza. Non saprei dire se era la malinconia degli esuli, di quanti hanno dovuto lasciare per sempre la propria terra, le proprie cose e i propri affetti. Allora la interpretai proprio così…
Hanno fatto scalpore le parole del ministro degli Interni Salvini, pronunciate a braccio, davanti a migliaia di persone – tra cui molti alpini nostrani – alla foiba di Basovizza (Ts) nella recente Giornata del Ricordo. Reazioni ancora più forti – e non ancora sopite – hanno innescato quelle di Antonio Tajani, che ha incassato le aspre critiche di alcuni esponenti politici di Croazia e Slovenia per il suo riferimento, giudicato “rivendicazionista”, alla “Dalmazia e all’Istria italiane”. Come a dire che le ferite per ciò che è avvenuto al confine tra Italia e Iugoslavia, negli anni che vanno dal 1943 al 1947, sono ancora aperte. Facile, quindi, riaccendere il dolore ed innescare polemiche. Un’attenzione del tutto particolare merita un altro intervento pubblico, di altro tenore, tenuto il 9 febbraio scorso, il giorno precedente alla Giornata del Ricordo. Mi riferisco alle parole pronunciate dal presidente della Repubblica italiana. Il suo è uno dei discorsi più chiari sul tema delle vittime delle foibe e chiede di porre fine ai riduzionismi, ai negazionismi ed alle strumentalizzazioni delle diverse fazioni politiche su quella che fu – come la definisce Mattarella – “una grande tragedia italiana… Un capitolo buio della storia nazionale e internazionale, che causò lutti, sofferenza e spargimento di sangue innocente”. Senza minimizzare le brutalità commesse dal fascismo negli anni precedenti al ’43 e la ferocia dell’occupazione tedesca contro le popolazioni slave.
Quello degli italiani dell’Istria, della Dalmazia e della Venezia-Giulia fu un destino crudele, comune a quello di molti popoli dell’Est europeo, che passarono “dall’oppressione nazista a quella comunista” e sperimentarono “tutto il repertorio disumanizzante dei grandi totalitarismi del Novecento, diversi nell’ideologia, ma così simili nei metodi di persecuzione, controllo, repressione, eliminazione dei dissidenti”. Quello che si abbatté sulle popolazioni italiane fu pianificato dai poteri centrali del nascente Stato iugoslavo: non fu semplicemente una ritorsione contro i torti del fascismo, “perché – ribadisce il presidente – tra le vittime italiane di un odio, comunque intollerabile, che era insieme ideologico, etnico e sociale, vi furono molte persone che nulla avevano a che fare con i fascisti e le loro persecuzioni”. “Tanti innocenti – continua ancora Mattarella –, colpevoli solo di essere italiani e di essere visti come un ostacolo al disegno di conquista territoriale e di egemonia rivoluzionaria del comunismo titoista – impiegati, militari, sacerdoti, donne, insegnanti, partigiani, antifascisti, persino militanti comunisti – conclusero tragicamente la loro esistenza nei durissimi campi di detenzione, uccisi in esecuzioni sommarie o addirittura gettati, vivi o morti, nelle profondità delle foibe”. Con la fine della Seconda guerra mondiale, molti italiani rimasero oltre la cortina di ferro, ma “l’aggressività del nuovo regime comunista li costrinse, con il terrore e la persecuzione, ad abbandonare le proprie case, le proprie aziende, le proprie terre. Chi resisteva, chi si opponeva, chi non si integrava nel nuovo ordine totalitario spariva, inghiottito nel nulla”. Iniziava così il drammatico esodo verso l’Italia: “Uno stillicidio – commenta Mattarella – durato un decennio. Paesi e città si spopolavano dalla secolare presenza italiana, sparivano lingua, dialetti e cultura millenaria, venivano smantellate reti familiari, sociali ed economiche”. Purtroppo “quei circa duecentocinquantamila italiani profughi, che tutto avevano perduto e che guardavano alla madrepatria con speranza e fiducia, non sempre trovarono in Italia la comprensione e il sostegno dovuti”.
La macchina dell’accoglienza e dell’assistenza si mise in moto con lentezza e una certa propaganda dipingeva gli esuli come traditori, nemici del popolo, “come una massa indistinta di fascisti in fuga”: “Non era così – afferma ancora Mattarella – erano semplicemente italiani”. Poi, su tutta la questione, scese il silenzio a motivo delle ragioni della “real-politik”, dettata dalla Guerra Fredda e dalla contrapposizione tra i due blocchi. Solo in tempi relativamente recenti, mutati gli scenari di politica internazionale e nazionale, si è deciso di gettare nuova luce su quanto è accaduto, di ripristinare la verità dei fatti e di accertare le responsabilità di tutte le parti in gioco, anche grazie alle nuove relazioni con gli Stati exiugoslavi confinanti. Da giovane prete, durante la benedizione delle famiglie, mi capitò di incontrare una signora anziana, che mi raccontò – tra le altre cose – di essere un’esule istriana. Mi colpirono molto la sua fede e il suo contegno, dignitoso e riservato, ma al tempo stesso segnato da un profondo senso di tristezza. Non saprei dire se era la malinconia degli esuli, di quanti hanno dovuto lasciare per sempre la propria terra, le proprie cose e i propri affetti. Allora la interpretai proprio così. A quella malinconia allude Simone Cristicchi in “Magazzino 18”, una sua canzone del 2013, dedicata al dramma dell’esodo istriano. Pensando alla Giornata del Ricordo, mi è tornata in mente quella signora, incontrata ormai quasi vent’anni fa, e credo che – se potesse ancora – oggi leggerebbe con commozione il discorso di Mattarella.
(*) direttore “L’Azione” (Vittorio Veneto)