Venticinque anni dopo
“Ogni singola parola di don Peppe era una parola profetica, capace di toccare le coscienze, schiarire le menti, infondere coraggio, innescare cambiamenti. Gli hanno negato quell’ultima omelia, senza capire che, così facendo, il suo messaggio sarebbe risuonato ancora più forte, amplificato dal martirio”. Ne è convinto don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele e di Libera, che ricorda don Peppe Diana a 25 anni dall’uccisione, sull’ultimo numero del mensile “Vita Pastorale” (marzo 2019). Pubblichiamo il testo integrale della sua riflessione.
L’hanno ammazzato subito prima della messa, don Peppe Diana, non per caso. Hanno voluto spegnere la sua voce prima che potesse alzarsi di nuovo, quel mattino, a denunciare la distanza incolmabile tra il Vangelo e i dettami dei signori di Casal di Principe, tra la volontà del Padre e quella di chi si pretendeva padrone della città, tanto da usurparne il nome: il clan dei Casalesi. L’hanno ammazzato prima della messa, quasi a voler dire: “Basta, non una parola in più!”. Era ormai chiaro che ogni singola parola di quel sacerdote era una parola profetica, capace di toccare le coscienze, schiarire le menti, infondere coraggio, innescare cambiamenti.
Gli hanno negato quell’ultima omelia, senza capire che, così facendo, il suo messaggio sarebbe risuonato ancora più forte, amplificato dal martirio.
Era stato un altro profeta della Chiesa di oggi, Tonino Bello, a usare questa definizione infuocata: martirio. L’aveva fatto parlando del cambiamento che stava investendo le diocesi, dopo un periodo troppo lungo di disattenzione, quando non di aperta tolleranza, verso il fenomeno mafioso. “È una Chiesa che, pentita dei troppo prudenti silenzi, passa il guado. Si schiera. Si colloca dall’altra parte del potere. Rischia la pelle. E, forse, non è lontano il tempo in cui sperimenterà il martirio”. Quello di don Giuseppe Diana si è compiuto una mattina di 25 anni fa, il 19 marzo, giorno del suo onomastico, dentro la chiesa di cui era parroco.
Dopo 25 anni il suo ricordo vive nei cuori e, soprattutto, nell’agire quotidiano di tante persone. Recita la scritta sulla sua tomba, nel cimitero di Casale: “Dal seme che muore nasce una messe nuova di giustizia e di pace”. Nel suo caso è più che mai vero. Dalla sua morte è germogliato un ricchissimo raccolto spirituale simboleggiato da un altro, reale: i prodotti coltivati da una cooperativa che non a caso porta il suo nome, “Le Terre di Don Peppe Diana”.
È stato un percorso lungo e non semplice, segnato anche da vicende squallide, come il tentativo di infangare la sua memoria. Insieme ad altri, io stesso ho vissuto sulla mia pelle quei tentativi. All’indomani dell’inizio del processo per l’omicidio, un quotidiano locale provò a insinuare che dietro ci fosse non la camorra, ma una storia di donne. Con i genitori e altri amici denunciammo quelle falsità, col risultato di venire denunciati a nostra volta. Per fortuna la giustizia, oltre ad avere prosciolto noi da quelle ridicole accuse, ha messo in luce la contiguità di alcuni responsabili di quel giornale con interessi criminali. C’è stato anche chi si è inventato un ruolo di don Diana nel custodire l’arsenale dei clan. Altre bugie subito smentite dagli inquirenti.
Tutto questo, paradossalmente, ha dimostrato che la voce scomoda di quel giovane sacerdote non era stata spenta dai proiettili, ma continuava a dare fastidio ai boss.
La forza delle parole, e della Parola, era stata del resto la chiave di tutta la sua vita.
“Per amore del mio popolo non tacerò”, recitava la “lettera” elaborata insieme ad altri parroci della Forania di Casal di Principe nel Natale del 1991, riprendendo una frase del Profeta Isaia e, soprattutto, un documento della Chiesa campana (1982), che per la prima volta prendeva nettamente le distanze dal potere informale della camorra. È compito di un sacerdote “parlare chiaro nelle omelie e in tutte quelle occasioni in cui si richiede una testimonianza coraggiosa”, scriveva in un’altra circostanza. E ancora quell’invito a “risalire sui tetti”.
Quest’ultima frase l’ho vista accendere di passione e speranza i volti delle migliaia di giovani giunti a Casale da tutta Italia, il 19 marzo di 10 anni fa, per onorare la memoria di don Peppe e sfidare apertamente i camorristi ancora asserragliati nei loro bunker a pochi chilometri di distanza. Fu in quell’occasione che, insieme ai suoi genitori e a tante associazioni, firmammo il protocollo di intesa per la gestione dei terreni confiscati ai clan. Ci sono state intimidazioni e sabotaggi. Ma oggi nelle “Terre di Don Peppe Diana” si produce un’ottima mozzarella di bufala, simbolo di un territorio che non vuole più essere inquinato dai rifiuti tossici né dal malaffare.
Un altro momento importante è stato nel marzo 2014, a vent’anni dall’omicidio. Durante la veglia che papa Francesco volle condividere a Roma coi familiari delle vittime innocenti delle mafie, gli proposi di dare la benedizione ponendogli sulle spalle la stola di don Peppe Diana. Il Papa ne fu molto emozionato. E il suo gesto ha dato un segnale forte alla Chiesa, non sempre fino allora unanime e incisiva nell’accompagnare la battaglia della famiglia Diana per la giustizia, al di là dell’immediato sostegno espresso da figure come i vescovi Nogaro e Riboldi. Ricca di significato è stata, poi, la scelta di monsignor Spinillo che, come primo atto da vescovo della diocesi di Aversa, s’è recato a pregare sulla tomba di don Peppe.
Un ulteriore passaggio di questa storia è l’elezione a sindaco di Casal di Principe di Renato Natale, medico, vicinissimo a don Peppe prima e alla sua famiglia poi, sempre in prima linea nella difesa dei diritti degli ultimi, della salute dei suoi concittadini e dell’integrità delle istituzioni democratiche. A lui e ai tanti che in 25 anni hanno profuso un impegno coraggioso e caparbio, ma anche a noi tutti, don Peppe chiede oggi in prestito la voce. Quell’ultima omelia negata, sta a noi pronunciarla e farla vivere ogni giorno.
(*) fondatore di Gruppo Abele e Libera