Schianto aereo in Etiopia

Omaggio ai caduti

I 157 morti del volo Ethiopian Airlines di domenica scorsa, diretto a Nairobi, ci colpiscono per le loro identità e le loro storie personali: appartenevano a ben 33 nazionalità diverse, per la gran parte dedicati ad attività umanitarie, un buon numero diretti all’assemblea dell’Onu sull’ambiente in programma da lunedì nella capitale del Kenya, dove, in apertura, si è osservato un devoto minuto di silenzio. Tra loro anche otto italiani, tutti impegnati nella cooperazione internazionale

Si ha un bel dire che i morti per incidenti stradali sono molti di più di quelli da incidenti in aereo – che resta sempre il “mezzo più sicuro” -, ma quando capita un disastro del genere ne siamo colpiti tutti, subitaneamente, intensamente, profondamente. L’incidente dei cieli ha una forza d’urto particolare nel sentimento collettivo, non solo per la sua imprevedibilità e imponderabilità, ma per il numero solitamente alto di persone coinvolte appunto “collettivamente” e per la fatale – pressoché totale – impossibilità di sopravvivenza. “Tutti morti, nessun sopravvissuto” è la sentenza purtroppo ricorrente. Ma occorre dire che il disastro aereo di domenica scorsa nei cieli di Addis Abeba ha degli elementi in più per sconvolgerci e commuoverci. L’ultimo modello di Boeing, della serie 737 Max, si rivela più critico rispetto ai precedenti (un altro simile incidente, senza alcun sopravvissuto, si è verificato nell’ottobre 2018 in Indonesia con 189 morti) e pone interrogativi sui “progressi” della tecnologia. Ma i 157 morti del volo Ethiopian Airlines di domenica scorsa, diretto a Nairobi, ci colpiscono ancora di più per le loro identità e le loro storie personali: appartenevano a ben 33 nazionalità diverse, per la gran parte dedicati ad attività umanitarie, un buon numero diretti all’assemblea dell’Onu sull’ambiente in programma da lunedì nella capitale del Kenya, dove, in apertura, si è osservato un devoto minuto di silenzio. Tra loro anche otto italiani, tutti impegnati nella cooperazione internazionale. A cominciare dall’assessore siciliano e archeologo Sebastiano Tusa che doveva partecipare ad una conferenza internazionale dell’Unesco a Malindi, e poi Carlo Spini, Gabriella Vigiani e Matteo Ravasio, membri dell’onlus bergamasca “Africa Tremila”; Paolo Dieci presidente del Comitato internazionale per lo sviluppo dei popoli; Maria Pilar Buzzetti, Virginia Chimenti e Rosemary Mumbi che collaboravano con il World Food Programme dell’Onu con progetti per risolvere il problema della fame nel mondo. “L’Italia che si occupa degli ultimi, l’Italia dei buoni” com’è stato detto. Commozione e direi anche venerazione per queste vite, dedicate in modo diverso ma unanime al servizio degli altri, stroncate da un tragico destino. Il presidente nazionale della Croce Rossa Italiana, Francesco Rocca, pensando anche ad una crocerossina norvegese perita nell’incidente, così ha scritto di loro: “Ognuna di queste vite serviva la vita di altre decine, centinaia di vite. La loro perdita è un simbolo del sacrificio e una speranza che per ognuno di loro migliaia di altri raccoglieranno il testimone del loro impegno, porteranno a compimento i loro progetti e ne inizieranno altri in loro nome”. “Quello che resta di una vita è l’esempio – ha ribadito – e tutte queste persone avevano fatto una scelta che ci indica un percorso”. Pensiamo anche alle tantissime persone dell’“Italia dei buoni” che – anche se qualcuno vorrebbe svalutarle o fare dell’ironia su di loro – quotidianamente si mettono al servizio dei fratelli, qui o altrove, seminando il bene, che si veda o no.

(*) direttore “Nuova Scintilla” (Chioggia)