Chiesa
Alla vigilia del convegno di Padova, intervista con don Riccardo Battocchio, vicepreside della Facoltà teologica del Triveneto, che spiega: “La Chiesa nasce da una chiamata non a singoli individui ma a un popolo”. Proprio da qui deriva il suo carattere sinodale. E sull’utilità di un sinodo: “La Chiesa ha il dovere di prendere la parola in questo momento della storia”, ma “non sono sicuro che il luogo adatto possa essere un’assemblea sinodale”
Il 12 aprile le facoltà teologiche italiane si riuniranno a Padova per rilanciare e condividere i risultati di un’indagine sulla sinodalità condotta nell’ultimo triennio dalle Facoltà teologiche del Triveneto (capofila), della Sicilia, Pugliese, dell’Italia Centrale, dell’Emilia Romagna, dell’Italia Settentrionale, e dall’Istituto universitario Sophia, con il sostegno del Servizio nazionale per gli studi superiori di Teologia e di Scienze religiose della Cei. Tema dell’appuntamento “Una Chiesa di fratelli e sorelle che camminano e decidono insieme”. Al convegno ecclesiale di Firenze (novembre 2015) Papa Francesco aveva chiesto di approfondire “in modo sinodale” l’esortazione Evangelii gaudium, e sono frequenti i suoi richiami allo stile della sinodalità, mentre all’indomani di quell’appuntamento qualcuno aveva iniziato a segnalare la necessità di un sinodo “della Chiesa italiana”. Il tema della sinodalità è stato il filo conduttore dell’introduzione con la quale il card. Gualtiero Bassetti, arcivescovo di Perugia – Città della Pieve e presidente della Cei, ha aperto la sessione primaverile del Consiglio permanente (Roma, 1-3 aprile) invitando a praticarla “come metodo di vita e di governo delle nostre comunità diocesane”. Alla vigilia del convegno di Padova, facciamo il punto con Riccardo Battocchio, vicepreside e direttore del ciclo di licenza della Facoltà teologica del Triveneto, docente di teologia dogmatica e coordinatore del gruppo di lavoro interfacoltà sulla sinodalità.
Fratelli e sorelle che camminano e decidono insieme. Che significa?
Il titolo del convegno intende richiamare la concretezza del camminare insieme. La Chiesa è fatta di persone concrete: la differenza di genere (“fratelli e sorelle”) serve a dire la diversità dei soggetti che concorrono a dare un volto alla Chiesa. Il “decidere” indica lo scopo del cammino comune: la maturazione di un consenso che nasce dalla fede, è animato dallo Spirito del Risorto, porta a scelte condivise, nel rispetto delle legittime diversità, sulle forme della testimonianza cristiana.
Da dove scaturisce la sinodalità e in che rapporto è con il Concilio Vaticano II?
Il carattere sinodale della vita della Chiesa deriva dall’essere popolo di Dio in cammino nella storia.
Il Vaticano II ha evidenziato la comune dignità e la comune missione di chi fa parte della Chiesa, per la fede e il battesimo. Ha chiarito che la Chiesa non esiste per se stessa, ma per dare testimonianza alla possibilità offerta a ogni creatura di incontrare Gesù, nel modo che gli è proprio, e di vivere del suo Spirito. Il Concilio ha indicato anche le basi del dialogo fra le Chiese: un autentico cammino “sinodale” non può che essere pensato come ricerca dell’unità visibile fra i cristiani.
Perché è così importante per la Chiesa, tanto da essere considerata una sua dimensione costitutiva?
La Chiesa nasce da una chiamata rivolta non a singoli individui ma a un popolo, come si legge al n.9 di Lumen gentium. La risposta non può che avere un carattere comunitario (sinodale). I modi in cui si risponde possono e devono variare nel tempo e nello spazio. Ci sono persone – i santi, canonizzati e non – che manifestano con tratti particolarmente luminosi la risposta alla chiamata. La risposta di uno, in ogni caso, è sempre legata a quella degli altri, nel bene e, purtroppo, anche nel male.
Che cosa richiede la sinodalità?
Se andiamo alla radice, vediamo che la conversione alla sinodalità è frutto della conversione al Dio di Gesù Cristo. Scoprire il volto di Dio manifestato nella carne di Gesù significa scoprire come sia la relazione con l’altro a fare di noi quello che siamo realmente. Dio-Trinità agisce come Creatore e come Salvatore intessendo relazioni buone e affidando a uomini e donne – a fratelli e sorelle – la cura per queste relazioni, sempre minacciate dall’egoismo e dalla paura, ma sempre sanabili.
Lei individua cinque parole chiave: oltre a decisione e consenso di cui abbiamo già parlato, anche rappresentanza, partecipazione e formazione.
Il tema della rappresentanza è complesso. In che senso si può dire che i vescovi delegati a un’assemblea sinodale rappresentano le Chiese loro affidate o i vescovi di una nazione? O che i membri del consiglio presbiterale rappresentano i loro confratelli e i membri del consiglio pastorale diocesano rappresentano le parrocchie o le realtà ecclesiali da cui provengono? Più facile è dire che
una rappresentanza reale presuppone la reale partecipazione alla vita della Chiesa di coloro che sono rappresentati.
Questa partecipazione si esprime non solo svolgendo specifici servizi ecclesiali o tramite l’appartenenza a strutture, associazioni, movimenti. Ci sono tanti modi per partecipare e mi sembra il caso di ricordare che
il momento più alto della partecipazione alla vita della Chiesa è la Messa.
Formarci, come cristiani, a una partecipazione piena, consapevole e attiva alla Messa significa anche formarci alla sinodalità.
Quali dovrebbero essere la presenza e il ruolo della donna nella Chiesa?
A costo di essere frainteso, direi che non esiste una “specifica” presenza o uno “specifico” ruolo della donna in quanto donna nella Chiesa. Ogni battezzato è chiamato a essere presente e a svolgere un ruolo nella Chiesa sulla base dei carismi ricevuti (anche l’appartenenza a un genere, femminile o maschile, può rientrare tra questi carismi) e in risposta alla chiamata e al mandato della comunità e dei suoi pastori. Fatta salva la decisione della Chiesa cattolica, dell’Ortodossia e delle Chiese orientali di ordinare al presbiterato e all’episcopato solo maschi – per fedeltà alla Tradizione – i modi in cui le donne sono presenti e svolgono un ruolo nella Chiesa sono cambiati nel tempo. Saremo noi cristiani di oggi e di domani a dire, sinodalmente, come potranno e dovranno cambiare.
Il card. Bassetti sostiene, tra l’altro, che la sinodalità è uno stile proponibile anche a “una società slabbrata come la nostra”…
Non è facile, per noi cristiani cattolici, proporci oggi come “esemplari” rispetto alla vita della società di cui, non dimentichiamolo, facciamo parte, nel bene e nel male. Eppure la comunione della quale viviamo (senza nostri meriti, con tutti i nostri ritardi e le nostre colpe) va condivisa. Nel passato alcune procedure ecclesiali hanno ispirato buone pratiche giuridiche e politiche: non è impensabile che possa ancora accadere qualcosa del genere.
Ritiene utile un sinodo “della Chiesa italiana”?
Il termine “sinodo”, in questo caso, rischia di essere ambiguo. Abbiamo esperienza dei “sinodi diocesani” e del “sinodo dei vescovi”, meno di “sinodi nazionali”. Tra il 1971 e il 1975 la Chiesa cattolica tedesca ha vissuto il “Sinodo di Würzburg” per attuare il Concilio in Germania. Ci si potrebbe ispirare a quel modello ma i tempi sono diversi e da noi la situazione è complicata (penso solo al numero delle diocesi e alla varietà delle loro configurazioni).
Resta il dovere della Chiesa italiana di prendere la parola in questo momento della storia del paese
e di invitare i credenti a una nuova stagione di responsabilità, ma non sono sicuro che il luogo di questa “presa di parola” possa essere, in tempi brevi, un’assemblea “sinodale” in senso stretto.