Intervista
“Il centro decisionale Ue andrebbe spostato – afferma la vicepresidente di Confindustria – verso le istituzioni europee, attraverso l’uso del metodo comunitario, e andrebbe sostenuto da un’adeguata legittimazione democratica, avendo come primo obiettivo i reali bisogni dei cittadini”. E aggiunge: “il processo di integrazione, in oltre sessant’anni, è riuscito a garantire pace e prosperità e a creare un modello di sviluppo invidiato. L’Unione ha lavorato bene sul fronte della pace e meno bene sul fronte della prosperità e della protezione”
“L’Unione europea deve cambiare passo, deve cambiare procedure decisionali e regole del gioco per rispondere alle sfide poste dalla trasformazione globale, a cominciare dalla sua architettura istituzionale”. Lisa Ferrarini, classe 1963, consigliere delegato del Gruppo agroalimentare Ferrarini, è vicepresidente per l’Europa di Confindustria: intervistata dal Sir, riflette a tutto campo, anche in vista delle elezioni del 26 maggio, sul processo di integrazione economica e politica, sul Brexit (“una crisi al buio, da irresponsabili”), le fake news e la disinformazione che definisce “propaganda”.
A poche settimane dal voto per il rinnovo dell’Europarlamento a che punto si trova, a suo avviso, il processo di integrazione europea?
Il processo di integrazione, in oltre sessant’anni, è riuscito a garantire pace e prosperità e a creare un modello di sviluppo invidiato. L’Unione ha lavorato bene sul fronte della pace e meno bene sul fronte della prosperità e della protezione. Oggi si parla molto del futuro del processo di integrazione e l’insoddisfazione per l’assetto burocratico e autoreferenziale dell’attuale governance dell’Unione europea ha generato un dibattito pubblico nazionale in tutti gli Stati membri, facendo emergere un diffuso malcontento tra chi non ha un lavoro o non arriva a fine mese o chi sente su di sé il peso della precarietà e scarica la propria frustrazione anche sull’ondata migratoria. Questo ci dice che i traguardi raggiunti non sono più sufficienti. Il mondo è cambiato, le sfide sono globali e i bisogni si sono evoluti. In questi ultimi anni, si è fatta strada l’idea che l’Unione europea non sia in grado di proteggere i suoi cittadini dalle minacce esterne e che li esponga, sul piano interno, a minori garanzie e diritti, generando impoverimento e precarietà. Con questo clima politico, sociale ed economico, il rischio che il progetto di integrazione compia passi indietro è concreto, e questo ci preoccupa perché noi imprenditori siamo ontologicamente europeisti. Per noi l’Europa è imprescindibile.
“Cambiare l’Europa”: questo, dunque, il mantra ricorrente. Ma di quali riforme avrebbe effettivamente bisogno l’Ue? Come riavvicinare i cittadini al progetto europeo?
Non possiamo più permetterci di mettere in campo le stesse politiche e di seguire le stesse procedure, come se nulla, nello spazio pubblico, si fosse prodotto, in particolare in questi ultimi anni. L’Unione europea deve cambiare passo, deve cambiare procedure decisionali e regole del gioco per rispondere alle sfide poste dalla trasformazione globale, a cominciare dalla sua architettura istituzionale, che la rende troppo lenta e spesso inefficace, passando per le regole della concorrenza, che penalizzano le nostre imprese nel confronto con giganti economici come Cina e Stati Uniti. Il metodo intergovernativo, basato sul coordinamento e la volontà dei governi nazionali, specie quelli più forti, ha accresciuto la sfiducia tra i Paesi, allontanando i cittadini dall’Ue e aumentato la percezione di un’Europa tecnocratica e poco democratica. Per garantire che l’Unione europea non sia percepita come mera burocrazia, sarà necessario promuovere non solo una integrazione economica, ma soprattutto politica e sociale. Il centro decisionale andrebbe spostato verso le istituzioni europee, attraverso l’uso del metodo comunitario, e andrebbe sostenuto da un’adeguata legittimazione democratica, avendo come primo obiettivo i reali bisogni dei cittadini.
Disinformazione, fake news: un rischio evidenziato in vista delle elezioni europee. È possibile che i populismi crescano anche grazie a questo “terreno di coltura”? Benché la crisi economica e quella migratoria abbiano lasciato segni pesanti…
L’Unione europea è in piena crisi di identità. E questa crisi di identità si lega a doppio filo al clima di sfiducia, malcontento e preoccupazione che attraversa innanzitutto il cosiddetto ceto medio. Del “Patto di stabilità e crescita” i cittadini in questi ultimi anni hanno visto solo la ricerca quasi ossessiva della stabilità. A causa della crisi e delle misure adottate per tentare di limitarne gli effetti, si è fatta strada la sensazione che fossero esclusi da decisioni cruciali per il loro avvenire, così alimentando la propaganda sull’Europa dei burocrati, delle banche, della Germania che comanda, e così via. Le fake news esistono e possiamo più semplicemente definirle “propaganda”. In questi anni, abbiamo lasciato che si raccontasse la parte “ostile, punitiva e burocratica” dell’Unione europea, trascurando una narrazione sugli aspetti positivi e sulla descrizione della filiera delle responsabilità politiche di decisioni o inazioni. La sfida oggi non è contrapporre propaganda a propaganda ma tentare di affermare un racconto quanto più vicino alla realtà: e la realtà ci dice, al netto dei molteplici errori compiuti, che stare insieme per oltre sessant’anni ci ha fatto bene, portando pace e prosperità a famiglie e imprese. Pensare di mettere in discussione il processo di integrazione aprendo una crisi al buio come quella voluta dal popolo britannico è da irresponsabili!
Il Brexit è comunque un segnale politico all’Ue. Ma esso può comportare anche un problema economico e commerciale. Quale il punto di vista di Confindustria?
Per noi l’accordo di recesso raggiunto dai negoziatori rappresenta il miglior compromesso possibile, che consentirebbe di dare una certezza giuridica che mitighi l’impatto della Brexit, permettendo alle nostre imprese di continuare a investire e fare commercio con un partner importante come il Regno Unito in un contesto chiaro. Staremo a vedere cosa succederà nelle prossime settimane. Certo, per noi rimane fondamentale evitare lo scenario “no-deal” e garantire un periodo di transizione che ci potrà dare almeno un orizzonte temporale entro il quale prepararci in modo ordinato al cambio di paradigma futuro. La soluzione è ora nelle mani della politica, la quale non sempre ragiona con gli stessi criteri delle imprese. Per questo un’uscita del Regno Unito senza un accordo non si può ancora escludere, ed è quindi fondamentale tenersi pronti ad ogni evenienza, facendo valutazioni di impatto e prendendo le contromisure necessarie per attutire gli effetti di un eventuale non accordo.
Quali richieste rivolge, più precisamente, il mondo dell’impresa all’Unione europea? Quali le attese per il futuro?
Da quando è scoppiata la crisi economica, il mondo delle imprese europee si è fatto carico di tenere insieme il tessuto sociale. Confindustria, anche insieme ai suoi maggiori partner europei come la tedesca Bdi o la francese Medef, e nel contesto di BusinessEurope (la Confindustria europea), da anni suggerisce ai Governi di adottare politiche che mettano al centro il lavoro, i giovani e le imprese. Politiche che, attraverso lo sviluppo della politica industriale, consentano di creare posti di lavoro per le nuove generazioni e che rispondano in maniera efficace al clima di sfiducia, malcontento e preoccupazione che pervade i cittadini europei. Poi chiediamo riforme dell’architettura istituzionale e delle procedure affinché l’Unione europea diventi più trasparente, partecipata e democratica. Occorre comprendere che la sfida non è tra Paesi europei ma tra l’Europa e il mondo esterno. Solo sotto il cappello dell’Europa i singoli Paesi potranno avere voce in capitolo in futuro nella definizione delle regole globali. Se non si agirà presto, entro il 2050 nessun Paese dell’Unione, nemmeno la Germania, farà più parte del G7.