Intervista
Il segretario generale della Confederazione europea dei sindacati traccia un bilancio degli ultimi anni su scala continentale. La crisi non è ancora alle spalle, manca lavoro per i giovani in diversi Paesi, ma si è compreso – spiega – che occorre garantire gli strumenti della protezione sociale, l’economia reale, le tutele per i lavoratori. Tra i “nemici” da combattere le multinazionali che non pagano le tasse e “i partiti populisti di destra che stanno insidiando l’interesse dei lavoratori”. Proficuo, a suo avviso, il dialogo con le istituzioni comunitarie. “Si accusa l’Europa di tutti i mali, ma in realtà i mali principali vengono dai governi”
La Confederazione europea dei sindacati (meglio nota con l’acronimo inglese Etuc, European Trade Union Confederation), con sede a Bruxelles, rappresenta circa 45 milioni di lavoratori di 90 sindacati in 38 Paesi dell’Europa, una forza sociale consistente che tiene il fiato sul collo all’Unione perché si arrivi a “un’Europa più giusta per i lavoratori”, come recita il titolo del manifesto che la Confederazione ha prodotto in vista delle elezioni europee e attorno al quale sta portando avanti una grande campagna. Bisogna andare a votare: “un tasso di astensionismo elevato alle elezioni non fa bene ai lavoratori perché chi prevale sono sempre coloro che sono più anti-Europa, anti-uguaglianza e giustizia sociale”, spiega al Sir il segretario generale Etuc, l’italiano Luca Visentini. E il nuovo assetto istituzionale europeo dovrà lavorare per un “nuovo contratto sociale”, che dia un futuro migliore ai cittadini europei.
Quale valutazione date di questa legislatura europea ormai conclusa?
C’è stato un grande miglioramento dal punto di vista sociale. La Commissione Juncker si è resa conto quasi subito che gli effetti della crisi sui lavoratori e i cittadini erano stati pesanti ed era necessaria un’inversione di rotta delle politiche economiche e sociali dell’Ue. L’annuncio della necessità di rifondare il modello sociale europeo e di costruire questa Europa sociale a “tripla A” e il sostanziare quest’impegno in una serie di provvedimenti concreti è stato molto positivo. La proclamazione del “Pilastro europeo dei diritti sociali” nel 2017 ha portato alla promulgazione di 13 nuove legislazioni in ambito sociale.
Quali ad esempio?
La revisione della direttiva sul distacco dei lavoratori che ha finalmente introdotto la parità di trattamento salariale per i lavori mobili in Europa; oppure la costituzione di una autorità europea per il lavoro che dovrebbe combattere gli abusi e lo sfruttamento del lavoro nei Paesi europei; la creazione di una sorta di statuto dei lavoratori (la direttiva sulle Condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili) che introduce lo standard minimo di diritti e protezioni dei lavoratori europei compresi i lavoratori atipici, i lavoratori delle piattaforme; l’estensione del sistema di protezioni sociali anche ai lavoratori autonomi. Tutto ciò ha decisamente cambiato il profilo dell’Ue nel rapporto con i cittadini. La difficoltà sta nel trasferire a livello nazionale queste normative perché c’è una forte resistenza dei governi a implementarle e perché adattare la legislazione nazionale a quella europea richiederà del tempo. Restano molti problemi ovviamente, ma rispetto alla fase precedente, gli ultimi anni sono decisamente in miglioramento.
Ma i tassi di disoccupazione, soprattutto giovanile, in diversi Paesi non sono ancora così bassi…
Ci sono però stati cambiamenti abbastanza significativi. Certo ci sono sacche preoccupanti di disoccupazione giovanile e soprattutto di disoccupazione di lunga durata. Però è un fenomeno che si limita ad alcune regioni dell’Ue, non a tutti Paesi. C’è stata una ripresa economica dopo la crisi (non tanto in Italia) e una serie di misure sociali sono state messe in campo: la qualificazione professionale, l’attivazione di politiche per il lavoro, servizi pubblici per l’impiego. È vero che sono precari molti dei posti di lavoro creati: per questo è necessario adeguare la legislazione, stabilizzando ed estendendo i diritti anche a questi lavoratori. È inoltre vero che c’è una carenza di investimenti soprattutto pubblici e il livello degli investimenti rimane molto modesto, così come lenta è la crescita del livello dei salari. In questi ambiti, a differenza delle prestazioni sociali, non ci sono stati provvedimenti significativi da parte dell’Ue: il piano Juncker per gli investimenti ha mobilitato prevalentemente risorse private, pochi fondi pubblici e ora serve uno sforzo aggiuntivo per il quale stiamo pressando la Commissione già da tempo.
E il fronte dei salari?
Sulla questione dei salari purtroppo l’Ue non ha una competenza diretta, ma noi stiamo cercando di far sì che si arrivi a una direttiva quadro per il rafforzamento della contrattazione collettiva nazionale e la creazione di tali sistemi anche nei Paesi dove non esistono. È l’unico modo per dare maggiore visibilità al lavoro e avere salari e condizioni di lavoro migliori in tutti i Paesi, riavviando un processo di convergenza che si è fermato da tempo.
Altre priorità per la prossima legislatura?
Oltre agli investimenti, i salari, non solo in termini generali ma anche per problemi specifici, come il cosiddetto gender gap, cioè la differenza salariale tra uomo e donna, o gli obblighi di salari d’ingresso imposti per i lavoratori giovani. C’è una terza priorità molto importante: alcuni dei venti principi del Pilastro dei diritti sociali devono essere ancora implementati per ricostruire il modello sociale che era alla base dell’economia sociale di mercato descritta nei Trattati dell’Ue e che è stato pesantemente smantellato dai provvedimenti di austerità durante la crisi. Per esempio la questione delle garanzie per i lavoratori precari, la necessità di introdurre ulteriori protezioni per la sicurezza e la salute sul posto di lavoro. Noi sosteniamo che serva un nuovo contratto sociale. Molti partiti hanno raccolto questa proposta, quindi c’è speranza che con il nuovo Parlamento e la nuova Commissione si possa lavorare in questa direzione.
Quali sono i vostri nemici peggiori in Europa?
Da un lato le grandi multinazionali, soprattutto quelle che non vogliono pagare le tasse né redistribuire i profitti; i cattivi imprenditori, cioè quelli che non rispettano le leggi, non pagando contributi e tasse e fanno concorrenza sleale agli imprenditori virtuosi; ma anche i partiti populisti di destra che stanno insidiando l’interesse dei lavoratori, promettendo cose che poi non mantengono.
Il dialogo con le istituzioni europee funziona?
C’è stato un notevole rafforzamento e miglioramento del dialogo sociale europeo sia nel rapporto con la Commissione, sia nel rapporto con il Parlamento. Non sempre gli accordi che le parti sociali riescono a realizzare poi vengono automaticamente trasposti nella legislazione e su questo dobbiamo continuare a lottare perché le previsioni dei Trattati vengano applicate correttamente. Ancora stagnante è il rapporto con i governi: dicono tutto e il contrario di tutto nel Consiglio, spesso smantellano accordi importanti che riusciamo a realizzare con la Commissione o il Parlamento e a livello nazionale si rifiutano di avere un dialogo sociale. Sono pochissimi i Paesi in cui i governi sono effettivamente aperti a un dialogo costruttivo con le parti sociali. Si accusa l’Europa di tutti i mali, ma in realtà i mali principali vengono dai governi.