Fine vita

Restiamo umani

Nel caso di Vincent Lambert, l’impressione è che siano prevalsi i calcoli di carattere economico (non solo del sistema sanitario) e più complessivamente una mentalità che non riconosce valore alla vita umana, quando vengano a mancare alcune condizioni. Quella decretata dai giudici francesi non sembra davvero una scelta in difesa dell’essere umano e del senso di umanità

Nelle nostre comunità capita spesso di incontrare situazioni dinanzi alle quali non si può che restare ammirati per come le famiglie si facciano carico della condizione di infermità di un loro familiare gravemente ammalato. Spesso i familiari seguono il loro caro con amore e con dedizione sino alla fine. A volte lo fanno da soli, perché la situazione si presenta gestibile da casa e hanno le risorse per farlo. Altre volte affrontano questa delicata fase con l’aiuto di personale qualificato e anche grazie a volontari ben preparati, che prestano il loro servizio all’interno delle mura domestiche. Altre volte il contesto è quello dell’ospedale, in cui il personale medico e infermieristico si distingue per tatto e per capacità di accompagnamento. Sempre più spesso è l’hospice il luogo in cui il momento della morte – momento doloroso e sofferto – acquista una dimensione familiare e umana di straordinario spessore. Come tanti altri preti sono testimone di situazioni umane così. Ciò mi porta a dire che c’è ancora una cultura ricca di umanità, che emerge in chi sa accompagnare le persone e i familiari nell’ultimo viaggio. In questa fase di passaggio, il personale fa davvero la differenza: nella maggioranza dei casi si tratta di personale qualificato, che vive la propria professione come una vocazione, preparato umanamente e professionalmente, attento alle necessità del malato e anche a quelle della famiglia. Personale capace di uno sguardo complessivo – “olistico” cioè unitario – sulla persona: attento alle esigenze mediche e infermieristiche ma anche a quelle umane e spirituali.
La persona, infatti, non è solo un insieme di cellule né soltanto un fascio di impulsi biologici, ma un essere umano, che ha bisogno di un ambiente accudente e di relazioni familiari. In molti casi la persona manifesta, in varie forme, anche il bisogno di Dio: un bisogno importante, che non può essere disatteso, qualunque sia la sua religione. Morire diventa così un transito, un passaggio da questa vita all’altra; ma anche una fase molto umana, che riguarda tutti. Non un mistero innominabile da tenere nascosto, ma un passaggio che si può attraversare con sufficiente serenità, se si è accompagnati e custoditi. “Da questa esperienza – ho sentito confidare dai familiari dopo la scomparsa del loro caro – ho imparato che in questi momenti si deve accettare l’impotenza, perché non si può risolvere sempre tutto o trovare soluzioni sempre… Ho imparato che non serve parlare, perché l’importante è essere presenti, vicini, anche nel silenzio… Ho appreso che ci sono fasi nell’approssimarsi alla morte che riguardano tutti e che la morte fa un po’ meno paura se si è in un contesto familiare e umano… Ho imparato che la morte non è la fine di tutto o l’interruzione di qualcosa, ma è un compimento: è il portare a termine un percorso”. La morte allora può diventare un’occasione – molto umana – di crescita per tutti i membri di una famiglia, in cui il distacco dal proprio caro diventa un momento importante, affettivamente molto intenso. A fronte di queste esperienze – lo sappiamo – vi sono altre situazioni che lasciano molto perplessi: per il distacco, per il disinteresse, per la grettezza delle relazioni, per la freddezza del sistema o per la poca umanità con cui sono vissute. In questi giorni è difficile non pensare alla fine drammatica di Vincent Lambert, il giovane uomo di cui scrissi già il 26 maggio e la cui vita (mentre andiamo in stampa) sta giungendo al termine. Muore di sete e di fame perché – dopo un combattutissimo e lungo dibattimento giudiziario – i giudici hanno disposto che idratazione e alimentazione forzata siano da ritenersi accanimento terapeutico. In realtà Vincent respira da solo e il suo cuore batte in autonomia. Era accudito amorevolmente dai genitori e da alcuni dei suoi fratelli. Non si capisce il perché di una morte così tragica. Dispiace molto. L’impressione è che siano prevalsi i calcoli di carattere economico (non solo del sistema sanitario) e più complessivamente una mentalità che non riconosce valore alla vita umana, quando vengano a mancare alcune condizioni. Si apre così la strada a scenari inquietanti: in Francia sono più di mille le persone che si trovano in una condizione simile a quella di Vincent. Che ne sarà di loro? Quella decretata dai giudici francesi non sembra davvero una scelta in difesa dell’essere umano e del senso di umanità. “Restiamo umani” si ripete spesso in questi mesi in riferimento ai salvataggi in mare. “Restiamo umani” anche per tutte le situazioni di sofferenza come quella di Vincent. In Francia come in Italia.

(*) direttore “L’Azione” (Vittorio Veneto)