Istruzione
Un altro anno scolastico si è chiuso senza scomodare troppo i sonni del Paese. Su questo distratto silenzio incide forse il fatto che la scuola non costituisce più un ascensore sociale per le nuove generazioni. Inoltre, le modifiche apportate al sistema scuola ci hanno forse internazionalizzato, ma hanno in parte snaturato le tipicità più nostre, rendendole meno presenti nei programmi. Ed è inspiegabile come, nello scrigno d’arte in cui viviamo, restino cenerentole storia, storia dell’arte, musica, religione.
Di scuola in Italia si parla per annunciare le novità (il nuovo esame di maturità), o rimarcare i guai (le non brillanti prove Invalsi). Per il resto, un altro anno si è chiuso senza scomodare troppo i sonni del Paese. Su questo distratto silenzio incide forse il fatto che la scuola non costituisce più un ascensore sociale per le nuove generazioni. Ma tale indifferenza non si giustifica.
Un certo agio non deve far scordare che ogni generazione nasce nuova al sapere e deve scoprire da sé quella soddisfazione che viene dalla fatica dell’imparare: chimica, musica o poesia che sia. È una fatica che si fa stile: si impara sui banchi, accompagna per la vita, dal lavoro come in casa. Tutto è impegno. Ma delle sudate carte sembra non cogliersi il senso, tantomeno la bellezza.
Come ci siamo arrivati? Ernesto Galli della Loggia ne “L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la scuola” propone una sua analisi: abbandonare il profitto per delle generiche competenze, lasciare ampio campo a una paternalistica pedagogia, riformare ad ogni piè sospinto al fine di modernizzare, burocratizzare all’eccesso e propendere per il fare sminuendo materie considerate senza fini pratici (greco e latino) hanno allontanato la scuola di oggi da quella di ieri, la cui importanza è “nella nostra storia collettiva”, nelle élite di pensiero prodotte, nei talenti espressi in ogni campo. Secondo lo stesso: “L’arresto del moto ascendente dell’Italia… ha a che fare con la crisi dell’istruzione”.
Le modifiche apportate al sistema scuola ci hanno forse internazionalizzato, ma hanno in parte snaturato le tipicità più nostre, rendendole meno presenti nei programmi. Ed è inspiegabile come, nello scrigno d’arte in cui viviamo, restino cenerentole storia, storia dell’arte, musica, religione.
Il turismo è una vocazione e una risorsa che l’Osservatorio nazionale del turismo quantifica in 230 miliardi di euro l’anno (stimati in 268 nel 2028). I turisti che calcano il nostro suolo sono 60 milioni l’anno, tanti quanto noi, e diventano sempre più esigenti. Servono lingue, marketing, enogastronomia non meno di quei saperi che – definiti antichi e sentiti morti – vibrano invece nelle nostre corde e abitano le nostre strade: dai templi di Agrigento al Mausoleo di Galla Placidia, dalle chiesette affrescate della nostra pedemontana allo Stabat Mater.
Le materie umanistiche non sono vecchiume inutile. Scrive della Loggia: “Non costituiscono un obbligo burocratico, bensì l’occasione per diventare più capaci di capire il mondo, più consapevolmente umani. Di diventare dei noi stessi migliori”.
Anche il latinista Ivano Dionigi, presidente di AlmaLaurea e della Pontificia Accademia di latinità, autore di “Osa sapere. Contro la paura e l’ignoranza”, riconosce che il sapere umanistico è in affanno, eppure in un mondo sempre più tecnologico costituisce “quell’anello che si chiama libertà, giustizia e anche felicità”. Dove cominciarne la frequentazione se non a scuola? Una scuola che può fornirlo agli studenti se “non si rassegna, per una malintesa idea di democrazia e di egualitarismo, a render deboli i saperi anziché forti gli allievi”.
Pure al pordenonese Enrico Galiano, star prof del web, è nato un commento ironico leggendo, tra le tracce della prima prova di maturità, quella dedicata al patrimonio culturale italiano.
Ma l’Italia è penultima, dopo la Grecia, in spesa pubblica destinata alla cultura (1,4% contro la media Ue del 2,1%). Non va meglio in spesa per la scuola (l’8% nel 2015 – ultimo dato noto -, la Francia arriva al 9,7%, la Germania al 10,3%, l’Inghilterra al 13,1%). E ha commentato: “Un Paese che tratta così la sua scuola è un paese che dice chiaramente ai suoi giovani che se ne sta fregando di loro”.
Osservazioni rafforzate dalla cronaca: quando il governo va in cerca di risorse finisce per decurtare alla voce istruzione, università e ricerca.
(*) direttore “Il Popolo” (Concordia-Pordenone)