Lavoratori agricoli
Negli ultimi 10 giorni a Foggia ci sono state quattro aggressioni, tutte con le stesse modalità. Feriti con pietre nove lavoratori immigrati africani. Monsignor Vincenzo Pelvi, vescovo di Foggia, constata “un’aria non solo di paura ma di scontro, rabbia, diffidenza, perfino di odio”: “Mi pare – dice al Sir – che si stia teorizzando, e poi di fatto realizzando, una architettura ostile per sbarazzarsi della loro presenza. Non vorrei che dietro ci fosse veramente una regia di malevolenza”
Comincia ad intravedere “il veleno del razzismo” che si sta insinuando nel territorio e “l’odio che cerca di inquinare il senso di umanità”. Così monsignor Vincenzo Pelvi, vescovo di Foggia, commenta le aggressioni continue ai lavoratori immigrati nel foggiano: negli ultimi dieci giorni ci sono state almeno quattro aggressioni, con nove ragazzi africani colpiti a sassate sulla testa, spesso minacciati e inseguiti da automobili. Spesso nella stessa zona e nello stesso orario. Il più grave è ricoverato all’ospedale di San Giovanni Rotondo. “Mi pare – afferma al Sir – si stia teorizzando, e poi di fatto realizzando, una architettura ostile per sbarazzarsi della loro presenza . Non vorrei che dietro ci fosse veramente una regia di malevolenza”. Non a caso, mons. Pelvi ha deciso di dedicare il primo giorno della novena per la festa patronale del 15 agosto ai 14 ragazzi immigrati morti lo scorso anno nei due incidenti stradali. Il 4 agosto renderà noto un messaggio scritto per l’occasione.
Cosa sta succedendo nel foggiano? E’ al corrente di questi episodi di violenza nei confronti dei migranti?
Sì ho saputo di almeno due episodi nei giorni scorsi. In diocesi e nel territorio della Capitanata stiamo cercando di puntare sull’accoglienza e d’intesa con alcune aziende locali, stiamo cercando di realizzare forme di integrazione per dare lavoro a questi ragazzi. Purtroppo molti di loro dovranno essere licenziati perché hanno il permesso di soggiorno per motivi umanitari. Ci dispiace molto perché sono persone valide, responsabili, intelligenti. Alcuni progetti Caritas mirano ad inventare proposte lavorative. Ma più passa tempo e più mi rendo conto che davanti alla loro integrazione sta invece scoppiando una forma di fastidio.
Si respira un’aria non solo di paura ma anche di scontro, rabbia, diffidenza, perfino di odio.
E l’odio cerca di inquinare il senso di umanità. Gli episodi di violenza sono un po’ generati da una sottile cultura di benessere e di egoismo, si pensa solo a se stessi vivendo quasi in bolle di sapone. Tutto questo è causato innanzitutto da violenze urlate, dal linguaggio verbale. Si sta creando una atmosfera antievangelica: anche se tutti si dicono credenti non vivono da cristiani. Anche sui social si usa questo linguaggio volgare. Tante persone, non contente delle violenze urlate, passano a questi gesti offensivi. Insomma, penso stia maturando in maniera subdola una brutta forma di discriminazione.
C’è il rischio che il veleno del razzismo si insinui sul territorio creando barriere e allargando le divisioni.
L’altro non è visto come un dono ma quasi come un inferno. Eppure la presenza di immigrati, che è diminuita, è serena e costruttiva, di amicizia ed empatia con le persone, anche nei luoghi di lavoro.
Mi pare che si stia teorizzando, e poi di fatto realizzando, una architettura ostile per sbarazzarsi della loro presenza.
Perfino vederli seduti in strada dà fastidio. Non vorrei che dietro ci fosse veramente una regia di malevolenza. Sul territorio c’è anche tanta buona gente che vive la dimensione della fraternità, dell’accoglienza, senza pregiudizi, il volontariato, non vorrei generalizzare.
Oltre ad aver riportato ferite gravi questi ragazzi sono stati anche minacciati. Per cui cresce la paura tra i lavoratori delle campagne.
Non è un clima di umanità. Dobbiamo essere uniti nel far sentire veramente che l’altro è un dono, che siamo tutti persone. Questa forma subdola di discriminazione è come una forma di malattia, da cui voglio pensare si possa guarire. Altrimenti stiamo togliendo la dignità per tutti. Si sta sottovalutando quest’aria di esclusione, che si sta ramificando. E’ un discorso di scarso orizzonte umano e culturale. Stiamo diventando un pochino disumani. Si scinde la testimonianza cristiana dall’accoglienza dell’altro e questo è molto grave.
A cosa collega queste forme di violenza verbale?
La collego ad altre forme di violenza presenti nel territorio, come le baby gang. Abbiamo dato vita ad un Comitato per l’ordine e la sicurezza perché in alcune parrocchie e parchi alcuni ragazzi davano fastidio durante gli incontri giovanili. Queste bande hanno cercato di creare disagio. E’ una situazione da affrontare con grande scrupolosità perché è come se la violenza non interessasse finché non tocca noi e le nostre libertà. Perché la coesione sociale ha bisogno di incontro, di vicinanza, di premura, di cura. Tutti questi aspetti risentono della malattia dell’indifferenza, che si sta diffondendo ovunque. Le parole oggi dovrebbero essere una modalità per costruire ponti e incontro, e invece vengono usate per offendere. A volte sono peggiori delle pallottole. Abituarsi a sentire un linguaggio volgare, gesti offensivi, rivalità istituzionale nel territori, sono tanti piccoli segni che danno come risultato questa rabbia.
Come reagire?
Dobbiamo metterci in rete per un progetto unitario sul territorio, per seminare di nuovo degli orizzonti di speranza. Non è possibile stare solo a guardare. Non dobbiamo aver paura di affermare quello in cui crediamo. Credo la dimensione dell’uomo sia quella di mettersi in gioco e di giocarsi anche la vita per le proprie convinzioni di incontro, dialogo, vicinanza. Invece l’impressione è che si voglia risolvere tutto con la repressione. Oppure risolvere solo quel disagio o quell’episodio mentre il problema è più profondo. E bisogna seminare cultura tra i ragazzi.
Oggi è considerato cattivo chi salva la vita dell’altro.
Si stanno anche svuotando i centri per i migranti, per effetto delle normative, ma va fatto uno sforzo ulteriore nei confronti delle persone in difficoltà e pensare a strutture ricettive che li accolgano in zona. Non possiamo allontanarli chilometri quando alle 4 di mattina devono stare nei campi a raccogliere i pomodori, poi gli asparagi, le arance, le olive. Le aziende del territorio, perfino persone con un credo diverso, riescono ad essere sensibili ad un progetto d’integrazione.
Invece noi che ci diciamo cristiani siamo distratti, disattenti, menefreghisti, indifferenti.
Ricordiamo che questi giovani, intelligenti ed esemplari sul lavoro, stanno ore e ore sotto il sole, con paghe irrisorie, a spezzarsi la schiena senza essere nemmeno curati.
Su questi temi c’è tanta divisione tra i cristiani?
La parola del Vangelo in certi punti è scomoda: chi risiede tra noi lo dobbiamo trattare come uno nato tra noi. Lo straniero va trattato come uno di famiglia. Nel nostro territorio c’è tanta malavita organizzata ma mi pare che vogliano distrarci con l’immigrazione per non pensare a tanti altri aspetti tremendi. Il 9 agosto ci sarà anche l’anniversario della morte dei due fratelli di San Marco in Lamis ma non va, non va. Bisogna fare più unità e cercare di parlare la stessa lingua, anche come Chiesa. E non aver paura di essere impopolari.