Relazione semestrale Dia
Con il sociologo specializzato in ricerca e formazione in tema di sicurezza pubblica riflettiamo su alcune criticità emerse nell’ultimo rapporto della Dia riguardante il secondo semestre del 2018: operazioni finanziarie sospette soprattutto al Nord, collusioni tra mafia nigeriana e Cosa nostra, i limiti di una legislazione antimafia legata a una competenza territoriale, estensione del fenomeno a tutta Europa
Operazioni finanziarie sospette soprattutto al Nord, collusioni tra mafia nigeriana e Cosa nostra, i limiti di una legislazione antimafia legata a una competenza territoriale. Sono alcuni degli aspetti emersi nell’ultima relazione semestrale della Dia (relativa alla seconda parte del 2018), resa nota nei giorni scorsi. Con Maurizio Fiasco, sociologo specializzato in ricerca e formazione in tema di sicurezza pubblica, riflettiamo sulle maggiori criticità.
Professore, al Sud le organizzazioni criminali tendono a infiltrarsi nelle aziende e negli appalti pubblici, mentre il maggior numero di operazioni finanziarie sospette di “interesse istituzionale” avviene al Nord. Questa dicotomia ci offre indicazioni?
Ricordiamo l’avvertimento del compianto procuratore antimafia Piero Luigi Vigna, che parlò vent’anni fa di asimmetria tra luoghi del prelievo criminale e luoghi del reinvestimento in attività economiche.
Come una divisione delle funzioni.
A voler ripristinare la memoria storica, nel 1957 le cosche mafiose, comprese quelle italo-americane, si riunirono a Palermo, decidendo la colonizzazione di quasi tutte le regioni. Certamente la Grande Crisi, tuttora in atto, la recessione economica, il fallimento di migliaia di industrie manifatturiere sane in Lombardia, Piemonte, Liguria e nel Triveneto hanno fornito incredibili occasioni alle “Tre sorelle” – Cosa Nostra, ‘ndrangheta e camorra – per affondare le radici nel territorio economico del Bel Paese.
Come si fronteggia una mafia sempre più imprenditoriale?
Promuovendo una difesa sociale ben coordinata. Da un lato, le investigazioni di polizia al massimo livello di qualità, dall’altro
un’“alleanza degli onesti”
per assicurare condotte istituzionali irreprensibili, la trasparenza delle procedure amministrative, il rifiuto di ogni pratica di corruzione. E tenendo sotto osservazione i settori più sensibili come la sanità, i lavori pubblici, il trattamento dei rifiuti, il gioco d’azzardo, la grande distribuzione commerciale e le attività finanziarie. Faccio un esempio. Nel caso di grandi opere edilizie o infrastrutturali va rigidamente imposta la separazione tra chi ha titolo per la decisione (amministrazioni pubbliche), fase di affidamento della progettazione, gara per l’esecuzione delle opere, controlli sui lavori in esecuzione e verifiche amministrativo-contrattuali. Insomma, tutto all’opposto a quel che spesso avviene: trasferendo il tutto a un “contraente generale” che fa le veci della stazione appaltante pubblica.
Occorre chiudere gli spazi opachi lasciati nelle concessioni, per sorvegliare settori quali energia-ambiente-rifiuti dove il condizionamento-ricatto trova largo spazio. A rischio, insomma, sono tutti quei business dove la contribuzione pubblica – incentivi e “fondo perduto” – spesso sostituisce i margini di utile attesi da un progetto industriale di successo.
Nel rapporto si parla anche di una legislazione antimafia che sembra scontare ancora i limiti legati alla competenza territoriale: cosa ne pensa?
La reductio ad unum fu il cuore del progetto della Dia e della Dna. Occorre sia un’integrazione “verticale” (dal primo passo della strategia alla conclusione del disegno) sia un’integrazione “orizzontale” (tra tutte le postazioni e le competenze per materia diffuse nei territori). La grande assente di questi lunghi anni è una riforma organizzativa del sistema di sicurezza pubblica, che soffre della palla al piede della visione burocratica, dell’autoreferenzialità. Servono meno risposte simboliche e più accountability, che significa responsabilità attiva “di servizio”. Al territorio vanno oggi risorse residuali delle forze dell’ordine. Ma è tempo di riprendere quel modello volto a presidiare proprio le periferie “geografiche” ed economiche.
Nella relazione è stato anche lanciato l’allarme dei rischi di radicalizzazione islamica della mafia nigeriana, con una particolare attenzione agli istituti penitenziari…
Qui c’è una postazione completamente abbandonata dallo Stato, che peraltro rimane estranea all’opinione pubblica. I pericoli non derivano da una Spectre che prepara i terroristi, quanto piuttosto da un’evoluzione identitaria di chi finisce in carcere per reati comuni. Come negli anni Settanta e Ottanta
servirebbe una corale delegittimazione morale del terrorismo, che valga a scoraggiare ogni manipolazione ideologica rivolta a creare la riserva della violenza.
Su chi? Sulla seconda o terza generazione dell’immigrazione quando avviene nelle persone il fallimento del suo “progetto di società”. Lo comprese bene l’allora ministro dell’Interno, Beppe Pisanu, quando costituì la Consulta islamica al Viminale, dove avviò la lettura del fenomeno in collaborazione con l’Islam maggioritario, quello cioè che si apre alla modernità e alla democrazia.
La mafia ormai è un fenomeno che ha varcato i confini nazionali: quale strategia europea può essere efficace nel contrasto e nella prevenzione?
Con le privatizzazioni dei patrimoni pubblici (industrie, banche, porti e infrastrutture di trasporto e recapito, compagnie aeree, suoli e beni naturalistici…) e il crescente spazio della speculazione finanziaria si sono create delle ampie intersezioni. Il nodo è qui: spazzare via gli enormi margini di convenienza che la finanza d’avventura ricava quando integra il “denaro sporco” (quello che deriva in linea diretta dal crimine), il “denaro caldo” (da evasione fiscale, frodi finanziarie, fallimenti programmati di banche e aziende, delocalizzazioni di industrie senza apparente motivo di mercato) e il denaro raccolto dai risparmiatori con la rete capillare di “promotori finanziari”. Insomma, da una parte l’Ue potrebbe continuare a perfezionare una strategia di “indagini concatenate” di polizia giudiziaria, mentre dall’altra sarebbe auspicabile che la Commissione di Bruxelles pervenisse a un sistema di regole condivise e stringenti.